L’Agcom e il diritto d’autore
Arturo di Corinto*
per Articolo 21 del 4 luglio 2011
Il giorno 6 di luglio verrà messa in consultazione la delibera Agcom che prevede la rimozione selettiva e la eventuale chiusura di siti sospettati di violazione del diritto d’autore. Dopo le note vicende, le pressioni del governo americano, la rimozione del relatore progressista della delibera, le chiusure dei membri dell’Agcom verso gli oppositori all’iniziativa, continua una guerra ideologica e molto poco pratica intorno a un tema cruciale per una società che si dice della conoscenza.
In realtà, gran parte del can can intorno alla questione ha una doppia origine: il carattere autoritario della delibera che prevede di intervenire per via amministrativa e non giudiziaria nei casi di presunta violazione del copyright; la scarsa conoscenza del diritto d’autore da parte dell’opinione pubblica che consente ai contendenti di mistificarne le ragioni. Cominciamo col fare chiarezza?
Se pensate di sapere cos’é il diritto d’autore saltate i prossimi paragrafi, se no, andate avanti.
Cos’é il diritto d’autore. Il diritto d’autore riguarda la facoltà esclusiva di diffusione e di sfruttamento di un’opera creativa, quale riconoscimento del lavoro intellettuale del suo autore. Ai tempi di Omero non c’era. Ai tempi di Rubens e Rembrandt non si sapeva a chi appartenesse davvero, al maestro o all’apprendista. Gutenberg non ha chiesto a nessuno il permesso di stampare la Bibbia, e moltissimi capolavori letterari come il Faust sono diventati tali attraverso arrangiamenti successivi per i quali nessuno ha pagato il copyright. Anche Beethoven copiava Vivaldi senza pagarlo. All’epoca era la prassi.
Il diritto d’autore non é un diritto naturale. Il diritto d’autore moderno nasce nel 1710 con lo statuto di Anna, un editto che poneva fine a una lunga controversia con gli stampatori inglesi che chiedevano certezza dei profitti derivanti dalla pubblicazione esclusiva delle opere acquistate dagli autori per limitare la concorrenza sleale di altri stampatori che potevano ripubblicarle senza pagare.
Da parte della regina però l’intento era quello di controllare la pamphlettistica contro la corona e individuarne i responsabili. A questo punto si fa evidente il problema di far rispettare la legge e irrogare le sanzioni per la sua violazione.
Il diritto d’autore é un monopolio temporaneo concesso dagli stati o dalle autorità di governo, con l’obiettivo di bilanciare i diritti degli autori, degli editori e del pubblico. Lo stato si fa garante di questo rapporto e lo tutela affinchè gli autori possano produrre nuove opere, gli editori diffonderle al meglio guadagnandoci, la società crescere. Ai tempi della Regina Anna era di 14 anni. La sua tutela oggi supera anche i 90 anni dalla morte degli aventi diritto, ovvero del rightowner.
Il diritto d’autore in Italia è tutelato dai tribunali. Il diritto d’autore in Italia è del 1941 (lda. 633/1941) e circa i due terzi della legge che lo regola sono stati modificati negli anni. Il diritto d’autore in Italia è automaticamente imposto. Vuol dire che per vederselo riconosciuto non si deve fare assolutamente niente. Non occorre chiedere permesso a nessuno, non serve registrarsi, non necessita della tutela della SIAE. Per rivendicare la paternità di un’opera è sufficiente apporre una sigla o una firma all’opera e la data di realizzazione è spesso risolutiva nelle cause per plagio.
Il diritto d’autore ha due componenti, la tutela dei diritti morali e la tutela dei diritti di tipo patrimoniale ovvero dei “diritti connessi”. Il primo tipo si capisce facilmente e riguarda la “paternità” dell’opera; il secondo ha a che fare con gli usi possibili dell’opera: la sua duplicazione, riproduzione in pubblico, la sua modifica, la possibilità di farne un’opera derivata, eccetera. Tutti questi diritti vengono ceduti in blocco dagli autori a chi li paga in base a un contratto, cioè agli editori, che da lì in avanti li rivendicheranno per sé stessi e li proteggeranno con la formula “tutti i diritti riservati”.
Eccezioni e limitazioni. Esistono delle limitazioni a questa esclusività e sono originati dalla necessità di contemperare il diritto da’utore con altri diritti ugualmente importanti: il diritto di informazione (di cronaca, di satira, di critica), di insegnamento, alla conoscenza dell’attività amministrativa, che sono per così dire di tipo pubblico, e i diritti dei fruitori giustificati a livello sociale e legislativo da diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto personale di libertà e dignità umana (artt.3 e 15 Cost.), il diritto alla cultura e alla ricerca scientifica e tecnica (artt.9 e 33 Cost.), il diritto alla libera manifestazione del pensiero (art.21 Cost.), il diritto alla proprietà privata (art.42 Cost.).
Analogico vs. Digitale. Il diritto d’autore nasce in un’epoca analogica. Nel mondo analogico la stamperia e il lavoro dei distributori delle copie fisiche del lavoro creativo era cruciale ed economicamente rischioso, gli autori non erano capaci da soli di arrivare a un grande pubblico e questo giustificava la tutela del monopolio temporaneo. Nel mondo digitale strumenti di produzione e catena di distribuzione sono nella mani sia degli autori che dei fruitori secondo ruoli misti e interscambiabili, i famosi prosumer (produttori e consumatori di informazione e cultura). E’ la “read-write culture” di cui parla Lawrence Lessig. Nel mondo digitale le stesse tecnologie che consentono ai titolari dei diritti di incrementare la propria offerta, creare nuovi mercati e raggiungere pubblici più ampi, sono le stesse che consentono alle persone di appropriarsi delle opere digitali circolanti sulle reti digitali anche senza riconoscere i diritti dei titolari.
La disintermediazione offerta dalla rete. Nel vecchio copyright le ragioni per limitare l’accesso alle opere e l’esclusiva del loro utilizzo doveva servire a vendere quante più copie possibili al prezzo più alto per far guadagnare autori ed editori. Oggi non è più così. La regola aurea dell’economia digitale dice che più una cosa circola più acquisisce valore. Inoltre le opere creative sono il frutto del lavoro di persone che spesso fanno altro, che non ne dipendono interamente per il proprio sostentamento, che guadagnano dalla pubblicità e dalla notorietà del loro lavoro il cui valore non è più determinato dall’intervento commerciale e distributivo di aziende in questo specializzate. La rete funziona come una tipografia universale, i costi della duplicazione tendono allo zero, le copie sono perfette e la loro appropriazione non costituisce uno spossessamento: un’opera digitale è un bene non rivale.
Serve ancora? Insomma, il diritto d’autore è il riconoscimento del lavoro intellettuale, una conquista del lavoro, ma il diritto d’autore è stato terremotato dalla rivoluzione digitale. La domanda centrale é allora se il diritto d’autore serva ancora a incentivare la diffusione delle opere, garantire la giusta remunerazione degli autori, nutrire la società ampliando l’accesso alla creatività diffusa.
L’economia del remix. Ogni rivoluzione tecnica è sempre stata opposta con argomenti roboanti. Nel caso del copyright, al congresso americano fu portata quella per cui il fonografo e i dischi in vinile avrebbero determinato la scomparsa delle corde vocali dei cantanti via via sostituiti dalle voci registrate e dai pianoforti meccanici. Molto tempo prima anche gli amanuensi si erano scagliati contro la macchina a stampa di Gutenberg.
Con le dovute differenze oggi il tema è lo stesso, la distruzione di una vecchia industria e della nascita di una nuova. Se è una distruzione creativa di tipo shumpeteriano non lo sappiamo ancora. Quello che sappiamo è che la funzione produttiva, distributiva e di duplicazione delle opere creative è passata dal mondo commerciale al pubblico dei clienti. Il “lavoro” del pubblico e dei clienti valorizza altri tipi di business, come quello dell’industria informatica, hardware e software, delle telecomunicazioni, della pubblicità, dei servizi eccetera.
Pensateci. Perché dovremmo avere computer sempre più potenti e una banda sempre più larga se non possiamo condividere film e musica? Per chattare e riempire un modulo amministrativo è sufficiente un vecchio collegamento telefonico. Se i prosumer non facessero questo lavoro incessante di veicolare attraverso i social network quello che leggono sui giornali e vedono in tv quanto varrebbero Google, Facebook e le altre dot.com quotate in borsa? Queste ultime valgono tanto più quanti più clienti/utenti hanno. E non sono clienti paganti. E se non fossero tanti, converrebbe all’industria pubblicitaria pagare degli spazi su Internet per proporre le loro offerte?
Ammesso e non concesso che i dati sulla pirateria digitale che provengono da entità non indipendenti siano veri, la pirateria domestica non può essere il punto di partenza per nuove considerazioni sul valore e la necessità del diritto d’autore e di una sua più forte tutela. Sarebbe meglio concentrarsi prima sull’offerta legale di opere protette, sull’educazione al rispetto del lavoro altrui, sulla riduzione dei prezzi delle opere, su una maggiore remunerazione degli autori e una migliore redistribuzione dei proventi della loro commercializzazione in seno alle società di raccolta dei diritti, su più adeguati meccanismi di intervento contro l’industria della copia illegale.
In particolare è da considerare che molti autori non si aspettanto un riconoscimento economico per le loro produzioni, che la circolazione delle opere in rete è un efficace veicolo di marketing, che se la circolazione delle opere protette non incide sul loro mercato viene meno il concetto di danno e quindi di risarcimento.
Le cose si sono fatte complicate e autori ed editori non vogliono le stesse leggi a tutela dei propri diritti. Perciò le tariffe flat, ovvero un canone di abbonamento fisso per accedere a opere protette dal diritto d’autore tramite portali ad hoc; il dual licensing, cioè la tutela tradizionale e quella parziale in stile Creative commons, le licenze collettive estese, le licenze geografiche differenziate, un codice del copyright europeo, l’armonizzazione delle leggi a livello internazionale sono le cose da discutere nel dibattimento sull’applicazione della delibera. Perché le alternative ci sono e il Parlamento italiano può legiferare in merito. Finché non ci riesce, sarebbe bene apporre una moratoria sull’applicazione della legge. Ma per i conflitti che crea, sarebbe meglio ritirare la delibera.
Arturo Di Corinto, Sapienza, Università di Roma