Benedetto Vecchi
IL MANIFESTO del 14 Aprile 2006
Sembra l’ultimo dei «frikkettoni», ma a questo termine preferisce quello di hacker, cioè una persona che gioca con il computer divertendosi. Richard Stallman continua ad avere capelli neri e lunghi, ma da quando è diventato il guru del software libero la barba è diventata bianca, segno che il tempo passa anche per l’ulitmo degli hacker, come appunto ama definirsi. Il suo volto e le sue parole riempono lo schermo nel dvd Revolution Os II allegato al libro che porta lo stesso titolo, entrambi pubblicati da Apogeo (pp. 150, 29) e curati da Arturo Di Corinto…
La casa editrice milanese aveva già stampato la prima release sulla cosiddetta «rivoluzione dell’open source», cioè dei programmi informatici non vincolati alle leggi sul copyright. Anche se, va detto, quella dell’open source più che una rivoluzione è stata una diffusione virale che è arrivata però a coinvolgere governi di paesi come il Brasile, Cina, Argentina e, più recentemente, il Venezuela.
Un libro di agili saggi (da Antonella Beccaria a Angelo Raffaele Meo, da Arturo di Corinto a Vittorio Strampelli, da Geert Lovink a Richard Stallman, più le interviste al ministro della cultura del Brasile Gilberto Gil) e un dvd che ripercorre le tappe appunto della «rivoluzione open source». Ma ciò che emerge in entrambi i prodotti è che all’interno di questa diffusione di prodotti no-copyright si sia verificata una biforcazione tra chi produce e distribuisce software open source e chi produce e distribuisce free software.
A prima vista appare come la classica divisione tra «pragmatici» e «utopisti», dove i primi sottolineano gli aspetti economici e la qualità dei programmi informatici «non proprietari», mentre i secondi puntano tutto sulla libertà e sulla condivisione di conoscenza che il free software consente. E se i «pragmatici» citano il coinvolgimento di multinazionali come Novell e Ibm in progetti opern source come segnali del fascino e del potere attrattivo della «comunità open source», gli «utopisti» indicano nella condivisione del sapere un modello di relazioni sociali non mercantili. Più realisticamente si può invece affermare che l’open source stia divendando il laboratorio sociale che produce prodotti innovativi da cui le imprese attingono know how senza investire più di tanto in ricerca e sviluppo, come testimonia la recente decisione di Microsoft di costituire un sito internet dove gli utenti che usano sia i suoi prodotti che quelli open source possono inviare i loro consigli e osservazioni «tecniche». Mentre il free software continua a mantenere aperta l’opzione, come sostiene lo studioso olandese Geert Lovink, di una società post-capitalista che non cancella però la proprietà privata. Questa sì un’utopia, ma che continua però a diffondersi come un virus, costituendo una magmatico movimento di resistenza all’appropriazione privata del sapere e della conoscenza.
(b.v.)