Moby Dick all’Argentina. Albertazzi-Ulisse alla ricerca della conoscenza.

di Arturo Di Corinto
per Culturalazio.it

albertazziEpico, onirico, faticoso. Ma anche cupo, lento, moderno. La messa in scena di Latella del Moby Dick al teatro Argentina di Roma è tutto questo insieme. Epica è la ricerca della conoscenza di cui la Balena Bianca, Moby Dick, è una metafora; eroica ricerca, perché la dolorosa avventura oceanica di Achab-Albertazzi e dei suoi marinai è il racconto dei sommovimenti interiori che tale ricerca produce. Una ricerca onirica, fatta di quel materiale di sogno che il SuperIo-Ismaele sorveglia e accompagna. Una messa in scena complessa, caratterizzata da una forte componente moderna e da un adattamento che ha enfatizzato il rapporto con la letteratura del viaggio, come quello, recitato sul palco, di Dante che scende all’inferno. E Achab è quell’uomo che scende all’Ade di un rimosso che costantemente riaffiora, (la cabina biblioteca sempre illuminata) accompagnato da Ismaele che è Virgilio, l’alter-ego dello scrittore cui Melville affida le proprie riflessioni scientifiche e filosofiche, rendendo il viaggio un’allegoria e al tempo stesso un’epopea. Se però Ismaele è Virgilio, Achab non è solo Dante. Achab è anche l’Ulisse di Joyce coi suoi flussi di coscienza, è l’Ulisse di Omero che intimamente e nascostamente dispera di trovare la strada che lo porterà a casa, non una dimora fisica ma un luogo della mente raggiungibile solo con l’appropriazione cannibalistica della balena-conoscenza. In una caccia simbolica testimoniata dalla presenza di Quipeg, il ramponiere cannibale cui nel romanzo fu affidata la segreta arte di giungere alla verità.

L’archetipo narratologico del viaggio, un viaggio che è innanzitutto interiore, è quindi la cifra anche di questa rappresentazione del romanzo di Melville, dove il capitano, il “Kubernete”, il capitano-timoniere, il condottiero, ha apparentemente il compito di portare in meta l’equipaggio, bravi attori che costruiscono la scena ai due personaggi principali Achab e Ismaele, epperò la cui meta non è l’approdo ma la ricerca. Solitaria. In questa passione divorante di un capitano mutilato della gamba dalla balena assassina, allegoria del dolore prodotto dalla conoscenza, non c’è infatti posto per i comprimari, gli ufficiali e i ramponieri sono strumenti, e potranno godere di un trecentesimo o di un settecentisimo dei proventi della caccia alla balena. L’uomo di fronte alla ricerca della verità è sempre solo.

Un’opera di grande fisicità, di energia, forza, anche nella rappresentazione della fisicità rovesciata del corpo storpiato e stanco del capitano Achab-Albertazzi, malfermo sulle gambe dopo la prova teatrale, che non avrebbe forse avuto bisogno della coreografia muscolare dei marinai che si lanciano vicendevolmente piatti e bicchieri, per rappresentare i momenti della socialità coatta e della festa nello spazio angusto della nave. Barocca, struggente e ricercata la musicalità affidata all’interprete di Quipeg e ottima l’intuizione di un tappeto di travi che obbliga gli attori a mimare l’equilibrio incerto sulla tolda del Pequod, la mitica baleniera di Nantucket. Anche qui una metafora di quanto incerto, solitario e pericoloso è il cammino degli uomini verso la conoscenza.

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