Web-violence
Discorso alla Camera dei Deputati
Arturo Di Corinto
«Pietre e bastoni possono rompermi le ossa, le parole da uno schermo mi possono colpire solo se, e fino a che, io glielo permetto». Nell’anniversario dei dieci anni dalla sua scomparsa potrebbe partire dalle dichiarazioni di Jude Milhon ogni discorso sulla violenza in rete.
Jude era un hacker e come tale ha dedicato la sua vita a sostenere l’importanza di Internet e computer come strumenti di emancipazione per le donne. Jude diceva: «Dovremmo pensare ad Internet come a una scuola che molte di noi ragazze non hanno mai avuto l’opportunità di frequentare e usarla proprio per superare la paura di non essere carine abbastanza, educate abbastanza, forti abbastanza, belle abbastanza, sveglie abbastanza o abbastanza qualcos’altro».
Ma ridurre il tema della violenza del web alle aggressioni verbali verso le donne non basta. Il web ospita molti siti che incitano all’odio razziale, alla xenofobia, all’antisemitismo e all’islamofobia. Il punto è proprio questo: per contrastare la violenza su web non serve mettere il bavaglio alla rete, ma intervenire sul bigottismo dei carnefici e sulla fragilità e le paure dei loro bersagli, con un’opera di educazione dentro e fuori dal web.
È noto a qualsiasi studioso di scienze sociali che nelle situazioni di crisi la manifestazione di comportamenti aggressivi aumenta. Che l’aggressività diventi odio e si trasformi in violenza fisica o verbale è frutto di un’escalation tipica del mancato soddisfacimento dei propri bisogni, materiali oppure emozionali. A volte tuttavia la violenza è direttamente fenomeno delinquenziale soprattutto se è percepita e attuata come uno strumento adatto a raggiungere i propri fini.
Sono molti i fattori dell’aggressività, a cominciare dai tratti di personalità alla frustrazione causata da interazioni sociali insoddisfacenti, alla messa in discussione della propria weltanshauung e del proprio sé (come sono fatto, come mi vesto, da che famiglia provengo, etc.).
Le cause dell’aggressività, dell’odio e della violenza vanno ricercate nella società e non nel web che però è una delle sue espressioni più rilevanti.
E infatti le interazioni via web aggiungono qualcosa di nuovo e di diverso all’aggressività manifesta o latente delle persone. Innanzitutto è più facile che l’aggressività si manifesti per una presunta immunità garantita dall’anonimato o dall’assenza fisica dell’antagonista. Oppure dalla mancata conoscenza delle regole di interazione dello spazio virtuale che si abita e dalle norme giuridiche che lo regolano.
Mentre i siti dell’odio sono un fenomeno ben conosciuto e circoscritto, il linguaggio aggressivo e violento nel web, hate speech, è fenomeno dalle caratteristiche più ampie e sfumate. Nonostante riproduca antiche dinamiche di discriminazione ed esclusione, basate su stereotipi e pregiudizi, è un fenomeno relativamente nuovo laddove Internet assume il ruolo di palcoscenico.
La logica da palcoscenico tipica dei social network, la dinamica di esibizionismo/voyeurismo che innesca, è però un prodotto della cultura televisiva, quella dei tronisti e delle veline, nel disperato tentativo di farsi vedere, di vedersi, di vedere e di far vedere.
Internet è dalle origini uno spazio di relazione e come in qualsiasi situazione o contesto relazionale, le dinamiche ingroup e outgroup possono essere aggressive per mantenere o conquistare la leadership oppure per annullare l’antagonista tramite intimidazioni e rappresaglie virtuali.
La differenza rispetto ai contesti tradizionali è data dalla platea degli spettatori, ampia e diversificata, che possono aggiungersi in quanto attori al conflitto generato dalla violenza verbale e dalle immagini fisse e in movimento – dal punto di vista semiotico sono dei testi – che hanno un portato emotivo di forte rilevanza e più facilmente inducono ad un’attivazione complessiva degli individui.
Il dramma con cui ci confrontiamo oggi è che le interazioni gratificanti o frustranti in rete hanno un parallelo o degli effetti e delle conseguenze nella vita reale laddove non c’è più confine tra lo spazio del sé costruito e agito nelle interazioni virtuali e quello che si costruisce e agisce nelle interazioni real-life o face to face.
E infatti secondo l’indagine del Pew Internt Project del novembre 2011 il 3% degli adulti intervistati cha hanno riscontrato comportamenti offensivi nei social network, dicono che si sono tradotti in conflitti della vita reale.
Quali soluzioni:
Se non è possibile rimuovere immediatamente le cause del disagio psicosociale dei violenti, l’unica risposta è educazione, educazione, educazione (voi politici avete grandi responsabilità) che va fatta nei luoghi della socializzazione primaria: famiglia, scuola, e poi nel gruppo dei pari, nei luoghi di aggregazione (club, stadio, polisportive) e di lavoro.
- Educazione al rispetto per gli altri e per la diversità che portano
- Educazione alle regole d’uso del mezzo (galateo o netiquette)
- Educazione alle leggi di pubblica sicurezza
- Educazione ai media
- Educazione degli operatori dei media
Debellare i luoghi comuni nel web:
- la rete è un far west: tesi grossolana che denuncia la scarsa conoscenza del mezzo. Internet è soggetta a molte leggi, da quelle tecniche a quelle di comportamento e sono regolate dalla giurisprudenza sia a livello locale che sovranazionale.
- Nella rete non valgono le leggi dello stato: falso! si applicano per estensione le leggi esistenti e i corpi di sicurezza dello stato e la magistratura sono in grado di intervenire anche al di fuori dei confini nazionali.
- Nella rete nessuno sa chi sei: falso! in rete si è completamente trasparenti, e occorrono poche ore agli esperti a profilare il responsabile di un comportamento deviante o criminale.
- Ci vogliono nuove leggi: falso! Occorre ribaltare e denunciare gli stereotipi, quelli razzisti e quelli sessisti, quelli xenofobi e quelli sociali.
Gli strumenti per impedire e punire i reati in Internet esistono. Piuttosto è ora di pensare al web come a un grande alleato per pomuovere stili di relazione positivi per creare una società più aperta e tollerante.