Pubblicato in Karma@Pa
10/04/2008
Negli ultimi anni il copyright (il diritto d’autore in Italia) ha smesso di essere un argomento esoterico per avvocati ed è diventato un tema di importanza cruciale per chiunque sia coinvolto a vario titolo nella produzione e fruizione di cultura.
Il copyright fa ogni giorno capolino nei quotidiani, nei tiggì, nei convegni universitari, perfino nella posta elettronica con cui gli amici ci spediscono musica e fotografie. E nei prossimi anni avrà un ruolo fondamentale rispetto al modo stesso in cui penseremo la creatività: sia in termini di proprietà che di collaborazione. Insomma è diventato un tema la cui analisi non può più essere lasciata ai soli avvocati.
Il copyright è nato e poi si è consolidato come un dispositivo di bilanciamento per garantire agli autori un incentivo alla produzione di opere creative e allo stesso tempo favorire la loro circolazione presso il pubblico, coè nella società, affinchè chiunque potesse goderne. Non è nato certo per tutelare i profitti delle case edtrici come qualcuno sostiene. E la migliore dimostrazione del ruolo di garanzia di questo istituto sta nel fatto che da sempre le biblioteche pubbliche esistono come alternativa alla distribuzione commerciale delle creazioni culturali. Il problema è che nel tempo questo equilibrio si è progressivamente spostato a favore dei detentori dei contenuti culturali, cioè case editrici, discografici, conglomerati mediatici, e nei fatti è diventato un modo per bloccare la creatività e la voglia di sperimentare degli stessi artisti che nel copyright avevano individuato un modo per guadagnarsi da vivere.
Storicamente il copyright è un’istituzione recente e non è certo un concetto universale. Le prime leggi sul copyright risalgono al diciottesimo secolo. Se fossero state precedenti probabilmente non ci sarebbe stata la riforma luterana e i preti sarebbero ancora gli unici a leggere e interpretare la Bibbia. Gutenberg non chiese a nessuno il permesso di stamparla e comunque non avrebbe avuto abbastanza denaro da comprarne il diritto di copia. Finì ugualmente in disgrazia quando finirono i soldi del venture capitalist dell’epoca che lo finanziava. Ma con l’emergere dell’idea dell’autore, del genio creativo, il copyright si fuse e si confuse con l’idea stessa di autorialità e proprietà dell’opera. Con il capitalismo globalizzato, il controllo delle opere basate sul copyright è stato centralizzato nelle mani di poche aziende mediatiche invece che in quelle di autori e artisti. Anche oggi che internet e i media digitali rendono obsoleta la distinzione fra la copia e l’originale, le leggi cercano di mantenere tale artificiale distinzione. Il risultato è che le leggi sul copyright si sono evolute da strumenti per controllare l’industria editoriale in strumenti per controllare consumatori, artisti e pubblico. Ma non è stato sempre così.
Fate un salto nella storia. Tradizionalmente il copyright era di poca o di nessuna rilevanza per la pratica culturale e artistica, tranne che nel mondo dell’editoria commerciale. Nei secoli passati tutte le forme di cultura popolare come i racconti, le ballate, le musiche tradizionali erano creazioni collettive e anonime, libere e di pubblico dominio. Le variazioni sul tema, le modifiche e le traduzioni erano non solo incoraggiate, ma proprie del processo creativo. E’ solo successivamente che imprenditori aggressivi e con pochi scrupoli hanno sottratto al popolo le sue creazioni mettendoci un marchio sopra e appropriandosene.
Volete un esempio? Walt Disney ha costruito un impero sull’adattamento di favole come Sinbad e Biancaneve*. Ma questo è accaduto anche per altre opere come le Mille e una notte, diffusa da bardi sconosciuti quando non ne esisteva ancora una versione scritta e che secondo i filologi proviene da fonti persiane ma è di origine indiana. Collegarsi alla tradizione prcedente per molti autori non era solo un vezzo, ma un modo per collegarsi agli autori precedenti, alla loro fama e al loro pubblico, conferendo un’aura universale all’opera considerata patrimonio dell’umanità. Lo stesso Cervantes in Don Chisciotte dice che la sua storia è di provenienza araba, anche se non è vero. Ma moltissimi capolavori letterari sono diventati tali attraverso arrangiamenti successivi per i quali nessuno ha pagato il copyright. Un esempio clamoroso è il Faust riadattato da Goethe e da Marlowe, da Pessoa a Jarry, da Mann a Butor. Nella tradizione musicale è successo lo stesso. Fino alla nascita dell’industria discografica i temi musicali venicano liberamente adattati e copiati da un compositore all’altro. Il famoso Concerto in D maggiore BWV 972 di Bach è un semplice arrangiamento orchestrale del’Estro Armonica di Vivaldi. Lo stesso Beethoven non dovette acquistare una licenza per scrivere le 83 variazioni di Diabelli dall’opera dell’omonimo compositore austriaco Anton Diabelli. Pensate al Blues che è la variazione di un’unica melodia.
Nelle arti visive il copyright è stato un non-argomento per secoli. Pensate ai laboratori di Rubens e Rembrandt – molte delle opere prodotte dalla loro scuola sono ancora di incerta attribuzione – o pensate al dadaista Kurt Schwitters che coniò finanche una marchio “Merz” ricavato dal logo della banca Commerzabank. Certo oggi sarebbe denunciato per violazione di marchio commerciale. Nella pratica artistica il plagio è stato sempre accettato. Tutto l’hip-hop è frutto della ricomposizione di pezzi musicali altrui. E poi ci sono stati autori come i Situazionisti di Guy Debord che hanno dichiarato le proprie opere anti-copyright permettendone a chiunque la copia e la modifica senza alcun permesso. Un caso esemplare per l’Italia è stato il bestseller “Q” di Lutherblisset, distribuito con una licenza di libera copia per usi non commerciali. Se pensate a tutto questo capirete perchè è sempre pù forte un movimento che, rifiutando i continui giri di vite nella legislazione sul copyright, vuole riprendere in mano la libertà di decidere cosa fare delle proprie opere pur senza rinunciare alla loro paternità e alle tutele economiche e morali che il copyright può offrire. Questo movimento si chiama copyleft, il “permesso d’autore” in alternativa al “diritto d’autore”. Non lo rifiuta né lo rimpiazza, ma lo trasforma per consentire nuove elaborazioni dell’opera affinchè il suo nucleo centrale circoli il più ampiamente possibile anche senza ricavarne un profitto. Non ci credete? Questo articolo che state leggendo sarà pubblicato online dall’”editore” (e quindi ognuno se ne potrà “impossessare” senza pagarlo) è solo il riadattamento di un testo scritto da un’altra persona, Lawrence Liang, un ricercatore di Bangalore, che non mi denuncerà per aver tradotto e liberamente adattato un estratto del suo libro “Guida alle licenze open content”, pubblicato dal Piet Zwart Institute di Rotterdam con licenza Creative commons. (www.creativecommons.org)
* Riferimento all’opera di R. Combas sul Wall Street Journal
Arturo Di Corinto