A caccia di democrazia nella rete
Liberazione 27/05/2008
Arturo Di Corinto
Visualizza in .pdf la recensione di Cybersoviet pubblicata dal quotidiano liberazione il 27 maggio 2008
Come i Soviet più l’elettricità non hanno fatto il comunismo, così la Rete più le comunità virtuali non faranno la cyberdemocrazia. Banalizzando, si potrebbe sintetizzare così la tesi centrale del nuovo libro di Carlo Formenti, “Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media”, pubblicato da Cortina editore a chiudere virtualmente la trilogia avviata dall’autore con Incantati dalla rete e proseguita con Mercanti di futuro. Però non si può fare. Perchè Cybersoviet non è il solito libro sugli effetti sociali dei media e della rivoluzione Internet, ma il tentativo, sistematico, di analizzare i contributi di molteplici correnti di pensiero alla definizione delle forme di democrazia possibili attraverso i nuovi media per approdare a una teoria critica della rete che dà purtroppo consistenza alla distopia dichiarata dall’autore: la rete non è il luogo della nuova democrazia. Anzi, essa non è neppure intrinsecamente democratica, perchè non è vero che la rete non possa essere controllata, che la sua trasparenza sia sempre buona e gli sciami che la popolano sempre intelligenti.
Per arrivare a questa conclusione Formenti ingaggia un corpo a corpo con diversi approcci disciplinari – mediologia ed economia, filosofia e sociologia – in cui mette a confronto le tendenze interpretative di un decennio circa gli effetti di Internet raggruppandole in teorie democratiche e postdemocratiche, intendendo con queste ultime le aspirazioni collettive a coniugare gli istituti della democrazia rappresentativa con le forme di democrazia diretta abilitate dal discorso pubblico in rete.
Nella prima parte del libro l’autore affronta la domanda se sia possibile delineare un’identità di classe per i soggetti sociali emergenti nell’era del capitalismo informazionale mettendo a confronto l’individualismo connesso di Castells che assume la rete come paradigma delle nuove forme di socialità, produzione e azione, e il capitalismo senza proprietà di Benkler. La sua risposta è un secco no. E l’argomenta contestando sia le tesi della classe hacker di Mc Kenzie Wark che quella di classe creativa di Richard Florida, alla luce di un’amara consapevolezza: con la bolla della new economy si è dissolta l’utopia dell’alleanza sociale fra lavoratori cognitivi e imprese della new economy. Per Formenti non si sarebbe realizzata la nascita di un nuovo blocco sociale dei lavoratori della conoscenza proprio per l’impossibilità di risolvere la contraddizione marxista tra la “classe in sé”, definita da una oggettiva condizione esistenziale – caratterizzata da rifiuto del lavoro salariato e autonomia produttiva, ma anche da frammentazione e precarietà esistenziale – e la “classe per sé”, che prende corpo solo nell’elaborazione critica e riflessiva di tale condizione. Il motivo secondo Formenti è duplice, da una parte la distanza dalle grandi narrazioni ideologiche e il rifiuto del principio di autorità senza competenze tipico di artisti, hacker e ricercatori. Dall’altro la scomparsa degli stati nazione portata dalla globalizzazione che lo fa riflettere anche sull’inefficacia trasformativa delle moltitudini teorizzata da Antonio Negri le cui espressioni movimentiste rappresentano solo una parentesi delle utopie postdemocratiche.
Da dove viene questa distopia? In primo luogo dal riconoscimento dell’avvenuta colonizzazione dell’immaginario portata dai media digitali che anziché favorire il discorso pubblico e quindi la presa di coscienza delle moltitudini e delle “neoclassi” ha azzerato la distinzione fra sfera pubblica e sfera privata, fra azione collettiva e volontarismo anarchico, cuocendo aspirazioni e rappresentazioni del sé nel crogiuolo indistinto della vetrinizzazione dell’individuo in rete. Una tendenza che Formenti colloca ab origine negli anni settanta quando i movimenti, emancipandosi dall’identità di classe, si sono ricomposti intorno a identità di genere e a temi trasversali (pacifismo, ecologismo) guadagnando in autonomia rispetto a partiti e sindacati ma perdendo in estensione, radicamento sociale, organizzazione e durata. In secondo luogo dalla constatazione della sussunzione da parte dei meccanismi del mercato dell’intelligenza connessa in rete che oggi produce plusvalore per le aziende usando acriticamente gli strumenti del web 2.0.
Eppure l’autore sostiene, pur senza spiegarlo in profondità, che l’antidoto a questa malattia della democrazia informazionale esiste. E’ pur vero infatti che l’utopia di una democrazia che fa proprio il modello di cooperazione sociale, di condivisione delle risorse e consenso decisionale tipico delle comunità virtuali risente degli effetti massicci dei processi di commercializzazione e della normalizzazione che hanno investito la rete. Ma dice anche che la deriva cyberpopulista delle primitive utopie postdemocratiche può essere arginata dalla presa di coscienza dei knowledge workers e dal ridimensionamento dell’egemonia neoliberale che le seduzioni ideologiche del web 2.0 esercitano sul popolo della rete.
Perciò, forse un luogo da cui ripartire è esattamente quello di cui Formenti denuncia le mitologie: la rete stessa. Attraverso la produzione dal basso di information goods, la difesa di Internet come spazio pubblico, il dialogo fra soggetti che anziché costruire reti per acchiappare adepti, le pensino come organi di collegamento nel mondo degli insetti.
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Mercoledi 28 maggio, alle ore 17. 30 – Fondazione Basso, Roma, via della Dogana Vecchia 5 –
Arturo di Corinto, Alfonso Gianni e Stefano Rodotà e Carlo Formenti
presentano il volume “Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media”.