Il pane, le rose, l’inchiesta. Per uno statuto dei nuovi lavori
Arturo Di Corinto
www.AprileOnLine.Info n.195 del 08/02/2005.
L’avvento del digitale rimescola le carte in tavola del capitalismo. Con il digitale, non cambia solo il modo di informarsi e socializzare ma cambia il modo stesso di produrre e di consumare l’informazione e la socialità. Cambiano i luoghi, gli istituti e le forme del lavoro contemporaneo.
Con il digitale, il lavoro che si reifica nelle reti di relazione connesse dalle interfacce macchiniche scavalca le mura della fabbrica e si generalizza alla società tutta, investendo non solo le relazioni interne ai luoghi della produzione e la tradizionale suddivisione del lavoro ma ne stravolge le sovrastrutture – gli ambiti della socialità, della riproduzione, gli scopi dell’agire socialmente orientato, la produzione di senso – causando un’accentuata frammentazione delle identità sociali e un senso di precarietà diffuso. Cosa è accaduto?
A dispetto delle premesse, l’abbondanza della merce informazione e la riappropriazione dei mezzi di produzione, il linguaggio e le capacità cognitive necessarie a manipolare l’infosfera digitale, non hanno generato maggiore ricchezza, nuove libertà, ma precarietà, subordinazione e alienazione diffuse. Il capitale deve trasformare la conoscenza per renderla produttiva e attraverso la sua astrazione, renderla misurabile e accumulabile, e quindi necessita di irrigidire il suo comando sulla forma fluida della merce informazione con leggi draconiane che ne vincolano la diffusione, sia attraverso la retorica mediatica, con la riprogettazione del mercato del lavoro e la delegittimazione delle tradizionali forme di rappresentanza.
Se il digitale ha avviato una trasformazione dei luoghi produttivi e dell’ontologia del lavoro inglobando le porzioni di attività umana che prima erano esterne alla fabbrica mettendo a lavoro la nuda vita, cioè i bisogni, le aspirazioni, le amicizie, i network sociali e degli affetti, trasformandoli in lavoro implicito e non remunerato, che spazio c’è per la rappresentanza del lavoro che si declina in queste nuove forme del lavoro e quali sono i luoghi e gli agenti del conflitto in grado di ricontrattare a proprio favore le istanze di comando e di controllo del taylorismo digitale?
A queste domande prova a rispondere il libro “E-work, lavoro rete, innovazione”, pubblicato da Derive Approdi in cui l’autore Sergio Bellucci ci racconta di una mutazione antropologica che investe non solo il mondo del lavoro ma l’idea stessa di società in cui però il lavoro – per il suo significato simbolico e normativo – continua a occupare un posto di rilievo nella definizione delle identità e delle progettualità comuni. Perciò è quello il fulcro della sua analisi che spazia dai temi dell’operaismo alle teorizzazioni del cognitivismo, affronta il problema della comunicazione, della pubblicità e del consumo, per descrivere la percezione che i singoli hanno della loro collocazione sociale raccontando come il lavoro declinato alla voce comunicazione diventa lo spettro di se stesso. Una premessa teorica la sua volta ad affermare l’inusabilità delle categorie interpretative passate per riannodare i fili di una teoria critica che tenga conto del cambiamento mentre si trova al centro del suo vortice.
Un’aspirazione importante perché, come sostiene l’autore, lo stesso uso di categorie interpretative del reale modifica la percezione diretta e indiretta che l’uomo ha del suo ”saper fare’’ e del ”poter fare’’ ed evoca immancabilmente il ruolo che gli istituti della vita associata hanno nel modificare, indirizzare e valorizzare tale percezione. Per questo a Bellucci non sfugge che mentre nuovi soggetti sociali mettono in scena bisogni e desideri, non viene meno l’importanza di istituti organizzativi e di rappresentanza per promuoverne le istanze: come i partiti ‘’operai’’ e il nuovo sindacato, ipotizzando uno statuto dei nuovi lavori per il lavoro nell’era del computer, a patto che questi siano in grado di ripensarsi e cogliere le nuove istanze del conflitto e perciò, ca va sans dire, il rinnovato ruolo che la pratica dell’inchiesta – qualcuno direbbe la conricerca – può avere per i ”nuovi lavoratori’’, e che potrebbe anche rivelarsi l’antidoto alla crisi dei luoghi di mediazione tradizionali.