Ammazza-blog. A volte ritornano
di Arturo Di Corinto per Articolo 21 del 26 luglio 2013
La pervicace insistenza di alcuni parlamentari a voler regolamentare la libertà d’espressione su web sarebbe degna di ben altre cause, ma così non è. Invece di intervenire sulle querele temerarie, di prevedere incentivi all’editoria amatoriale e non periodica o di tutelare i giornalisti che scrivono di mafia e perseguire efficacemente le aggressioni nei loro confronti, il parlamentare italiano si esercita ancora sul tema della diffamazione online e sull’obbligo di rettifica per i blog e i siti amatoriali. Un emendamento appena presentato dal deputato del Pdl Gianfranco Chiarelli alla legge sulla diffamazione all’esame della commissione Giustizia della Camera, prevede infatti solo quarantotto ore per pubblicare la rettifica sui siti Internet, una multa fino a 5.000 euro, l’oscuramento del sito fino a tre anni e l’arresto fino a cinque. Perché tanto odio?
C’è chi dice che il web non è regolato. Cosa inconcepibile visto che l’Articolo 595, 3 comma del codice penale, già prevede la diffamazione su ogni mezzo e quindi anche Internet. E poi se le previsioni di legge non valessero per il web come sarebbe stato possibile perseguire i 22 presunti responsabili di vilipendio al capo dello stato per quello che ne avevano scritto sul blog di Grillo?
In realtà quello che si vuole fare con ben 4 disegni di legge in discussione alla Camera è equiparare le previsioni di legge che valgono per la diffamazione a mezzo stampa alla diffamazione online, cosa che – come ricorda l’avvocato Fulvio Sarzana – la Cassazione ha detto non essere possibile fare, ma che è il vero punto dolente della politica incalzata da blog e social media. “L’equiparazione introduce una responsabilità di controllo del singolo blogger come fosse un direttore che diventa responsabile persino dei commenti altrui” ribadisce, e tuttavia “l’equiparazione, introducendo sanzioni pecuniarie paradossalmente potrebbe riparare il blogger da pene diverse”, e “la rettifica consente di abbattere o escludere la responsabilità.” Quindi ci sarebbe addirittura un aspetto migliorativo in queste proposte.
Intendiamoci, l’obiettivo di tutelare la dignità e l’onorabilità delle persone è sacrosanto, ma questa non è la strada giusta, per motivi che andiamo spiegando da almeno tre anni, da quando riuscimmo a stoppare la stessa norma contenuta nel decreto intercettazioni che Alfano guardasigilli caldeggiava per proteggere il suo capopartito. Perché non è la strada giusta?
I problemi sono di metodo e di merito. Le 48 ore previste sono poche per cancellare le informazioni presunte lesive per chi gestisce un sito amatoriale il cui proprietario nel caso non voglia farlo ritenendo di aver operato correttamente, deve assumere su di sè il rischio di difendersi dalle accuse e pagare un avvocato per poi arrivare in tribunale. Da sottolineare che il reato di diffamazione è tipicamente contiguo alla libertà d’informazione, al diritto di cronaca, al diritto di critica e di satira e quindi si configura facilmente come un reato d’opinione che non può essere perseguito senza l’intervento di un giudice e il necessario dibattimento. Ma, dal punto di vista del giornalismo italiano che, seppure delegittimato, rimane un contropotere nei confronti degli abusi dei ricchi e dei potenti, i motivi di inadegautezza delle proposote di legge sulla diffamazione online sono anche altri.
Primo. Perchè costituisce un deterrente alla libera informazione. Il citizen journalist che gestisce da solo un blog o un sito, nel timore di incorrere in sanzioni o in una battaglia legale, probabilmente rinuncerà a parlare di quella cosa – un’informazione di reato, un retroscena, un fatto di interesse pubblico – che per prossimità territoriale o capacità investigativa ha saputo prima e meglio di altri ma che non è ancora giunta all’opinione pubblica, agli inquirenti, ai diretti interessati. È stato il caso esemplare della pubblicazione da parte del blogger Macchianera del nome del soldato che uccise Calipari.
Secondo. Perchè, come conseguenza di tali timori, non consentirebbe di innescare quel circuito virtuoso tra giornalismo amatoriale e professionistico che ha permesso nel tempo di portare all’opinione pubblica fatti di particolare rilevanza. È il caso esemplare dei molti scoop di Wikileaks inizialmente pubblicati sul solo sito dell’organizzazione e solo dopo pubblicati dalle grandi testate.
Terzo. Perchè a differenza della stampa periodica e registrata, il sito amatoriale non gode di uguale tutela giuridica e neppure di fondi e finanziamenti che permetterebbero di pubblicare tempestivamente la rettifica o di pagarsi un avvocato per difendere la correttezza del proprio operato. E’ stato il caso di Wikipedia, richiesta di oscurare le pagine relative al re della sanità privata Antonio Angelucci per ipotesi di reato per le quali è attualmente indagato.
M5S e SEL hanno gridato alla censura, mentre i relatori, Costa (PDL) e Verini (PD), chiedono tempo per valutare la proposta e starebbero lavorando col governo per definire a quali siti internet estendere le norme sulla diffamazione perchè sanno anche loro che un conto è parlare genericamente di sito avente carattere editoriale e un altro di sito registrato al ROC e/o registrato presso le sezioni dei tribunali specializzate. Buon senso vorrebbe che a ricadere nell’ambito della disciplina sulla diffamazione siano i siti che hanno un direttore responsabile obbligato alla vigilanza della pubblicazione. Tipicamente i quotidiani online e quelli a stampa che hanno una versione digitale, lasciando stare finalmente tutti gli altri accettando che su blog e similari si sviluppino critiche e polemiche che sono il sale della democrazia.
26 luglio 2013