Pirateria digitale: falso allarme
Creativi in cerca di nuovi modelli di tutela del diritto d’autore
Arturo Di Corinto
per Articolo 21 del 22 dicembre 2012
Il Ministero dello sviluppo economico ha lanciato l’ennesimo l’allarme sul copyright. Gli attuali strumenti non sarebbero sufficienti a contrastare la pirateria digitale. E questo è un problema nel momento in cui tutta l’industria si fa sempre più immateriale e una porzione importante del prodotto interno lordo del nostro paese dipende dalle royalties pagate sulla vendita di prodotti ad alto tasso di creatività. Fermare la pirateria e far rispettare le leggi a tutela del diritto d’autore è importante, ma bisogna mettersi d’accordo su come farlo. Non si può fare ad esempio mettendo sotto controllo tutti gli utenti di internet e violando la loro privacy. E poi, affinchè gli strumenti di contrasto siano efficaci bisogna capire caratteristiche e dimensioni del fenomeno. Quello della pirateria è infatti, per definizione, un fenomeno clandestino di cui è difficile stabilire le dimensioni.
L’industria discografica e cinematografica valuta le perdite derivanti dalla pirateria in molti milioni di euro. Non dice però che le perdite sono in realtà una stima ragionata dei mancati introiti che non tiene conto dei cambiamenti del mercato, della crisi economica che dal 2008 in poi ha prodotto degli effetti devastanti sui consumi delle famiglie, dell’innovazione tecnologica che ha portato sul mercato oggetti e strumenti di intrattenimento diversi da cinema e musica, e dall’apertura di un mercato globale di Internet dove la disintermediazione tra produttori e fruitori di opere creative è la regola.
Un recente studio dell’Ofcom, la cugina inglese dell’Agcom italiana, ha ridimensionato il fenomeno della pirateria digitale: solo il 16% di tutti gli utenti internet inglesi superiori ai 12 anni monitorati nello studio ha usato contenuti tutelati da copyright senza pagarli. Di questo 16%, l’8% avrebbe acceduto e scaricato musica illegalmente, il 6% film, il 2% videogames e software. Ma la cosa importante è che un quarto di tutti questri trasgressori ha detto che non lo farebbe di nuovo se avesse chiaro ciò che è legale fare e ciò che non lo è.
Inglesi e italiani non sono diversi ed è evidente che occorre fare due cose per tutelare i legittimi diritti di autori ed editori: avviare iniziative massive di educazione al copyright e ripensarne i termini nell’era digitale. Oggi basta avere un pc e una connessione veloce per avere in maniera grautita, facile e veloce quello che spesso viene pubblicizzato ma che non sta sul mercato. Perciò rendere disponibile online tutto ciò che l’industria produce, insieme a una sensibile riduzione dei prezzi delle opere accorciando la filiera atrtraverso cui arrivano al pubblico è la strada maestra da percorrere.
Ripensare il copyright non è facile per via dei molti e diversi interessi che gli crescono intorno, ma le proposte ci sono. Fermo restando il riconoscimento dei diritti morali dell’opera, per quanto riguarda la gestione dei diritti economici secondo molti artisti la soluzione è il dual licensing, cioè metto sotto full copyright le opere da cui voglio una remunerazione piena e diretta e metto nel pubblico dominio le opere che voglio far circolare in maniera virale senza guadagarci “perchè mi faccio pubblicità”. Insieme all’educazione dei consumatori, l’educazione al copyright interessa anche gli autori che devono farsi consapevoli che senza di loro le opere non esistono e che non è sempre conveniente cederne in blocco i diritti a editori che spesso concedono loro solo le briciole. Con le creative commons è possibile contrattare di volta in volta col proprio pubblico e con gli editori cosa si può fare e cose non si può fare con le proprie opere. Sarebbe ora di farlo capire anche agli editori.