Se Instagram vieta i #curvy vuol dire che sui social siamo tutti nudi (e indifesi)
di ARTURO DI CORINTO per Che Futuro! del 22 luglio 2015
La censura dell’hashtag #Curvy da parte di Instagram ha aperto un grosso dibattito in rete circa ciò che è lecito postare all’interno dei social network. Curvy è l’aggettivo inglese che indica una donna dalle forme prosperose, e l’hashtag che l’accompagna dovrebbe avere la funzione di disseminare e trovare più facilmente contenuti collegati a questo tema.
Perché l’hanno fatto? Ufficialmente perché l’hashtag sarebbe associato a immagini della nudità femminile che violano i termini di servizio del social network. E tuttavia hashtag come #anorexic, #anorexilove, #straightwomen che corrono lo stesso rischio, non sono stati bannati. Perciò la decisione ha creato un vero e proprio movimento d’opinione che oggi si esprime in maniera alternativa e difficilmente censurabile con altri e diversi hashtag come #BringCurvyBack, #Curvee, ed altri.
LA LEGGE (NON SCRITTA) DELLA RETE
Dov’è lo scandalo allora? In fondo la prima legge non scritta di Internet, è che la rete interpreta ogni censura come un malfunzionamento e lo aggira. La seconda legge non scritta di Internet è che quello che viene taciuto e oscurato qui, ricompare subito, pochi click più avanti: è l’effetto Streisand, quella dinamica per cui il segreto e la censura stimolano la diffusione dell’informazione che si voleva celare al pubblico.
Tutto bene quindi? Manco per niente, qui il tema è capire se i social network possono decidere al posto nostro e operare nella direzione opposta del principio su cui sono nati e si sono evoluti: dare a tutti la possibilità di incontrarsi e discutere su tutto, nel regno in perenne costruzione della famosa libertà d’espressione. Dopotutto il free speech è un caposaldo della società americana che li ha generati, ed è protetto dal primo emendamento alla base della Costituzione Americana (che è anche la legge numero zero di Internet).
IL PROBLEMA DELLA VIGILANZA SUI CONTENUTI
Una delle argomentazioni a favore di uno stretto “patrolling” o “vigilanza” sui contenuti postati dagli utenti che ne può giustificare la rimozione è però l’affermazione di un altro principio che dice: “When in Rome, do as the Romans do”, l’obbligo cioè di comportarsi secondo le regole della casa. In fondo i social mettono a busta paga fior fiore di avvocati per stabilire i termini d’uso delle proprie piattaforme – e che colpevolemente spesso non leggiamo -, e se si aderisce a quel contratto, i termini di servizio, cioè le regole della casa, vanno rispettati. C’è tuttavia una variabilità nell’applicazione stessa di quei principi.
Tornando al caso “Curvy”, anche i contenuti sotto l’hashtag #Thin possono condurre a nudità di altra natura, a immagini di donne magre, esili, sottili, perfino anoressiche.
Allora chi decide cosa deve essere bannato? Intanto sappiamo che ci vuole una segnalazione che viene raccolta da uno o più delle decine di “mechanical turk” o “flesh human engine” che lavorano al servizio di queste piattaforme. Persone istruite, che spesso parlano più di una lingua, devono superare dei test per fare quel lavoro e hanno delle paghe da fame: i “patrollers” sono reclutati spesso nei paesi in via di sviluppo e pagati da uno a tre dollari l’ora per questo faticosissimo lavoro.
Esistono poi delle tabelle, con le istruzioni a cui debbono attenersi, che gli consente di agire immediatamente di fronte a violazioni evidenti della policy dell’azienda e del sito per cui lavorano: immagini scioccanti come corpi nudi, sangue, pedopornografia, testi equivoci, insulti, hate speech.
ANCHE FACEBOOK E TWITTER CENSURANO
Ma le cose non sono sempre così semplici. Ha fatto il giro del mondo la richiesta di neomamme e dei loro supporter di non cancellare i post in cui si vedono neonati allattati al seno. Facebook non lo permetteva. Altre volte la decisione è semplice: sono stati pochissimi a lamentare la rimozione delle teste mozzate dall’ISIS all’interno dei post di Twitter. Ma c’è stato un grosso dibattito circa il fatto che mentre negli USA è lecito divulgare via social i simboli del nazismo (perfino venderne i gadget su Amazon), in Francia questo fatto costituisce reato e in Italia due giorni fa ben 21 persone sono state rinviate a giudizio per incitazione all’odio razziale e alla xenofobia attraverso il sito fascista Stormfront.
La Open Net Initiative ha realizzato una mappa della censura dei social media dove si vede che le scelte degli stati cira la legittimità dei contenuti divulgabili sono molto diverse tra di loro.
Se il confine del buon gusto è mobile, figuriamoci quello della morale e ancora di più delle leggi nazionali che sono sempre l’espressione della cultura e della società in cui sono decise e applicate. Un problema di estrema rilevanza oggi visto che i confini degli stati sono costantemente violati dalla globalità di Internet e dei suoi servizi.
I LIMITI ALLA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE
Che fare? È pensabile di lasciare ai social la possibilità di decidere della nostra libertà d’espressione? Google è diventato l’arbitro del diritto ad essere dimenticati dalla rete, ma almeno è successo sulla base di un’iniziativa giuridica europea che ha visto coinvolti 28 stati. Quando non esiste questo accordo, essendo delle entità private, possono i social network limitare diritti costituzionali riconosciuti come quello all’informazione, alla ricerca, alla satira, alla critica, alla privacy, al diritto d’autore?
La logica capitalistica che ci ha dato le piattaforme sociali converge a livello mondiale solo su di un tema, la contraffazione, ovvero la violazione della proprietà intellettuale, perché anche quando sono un poco diverse le leggi che la regolano, le controversie relative a copyright, marchi e brevetti tendono a risolversi in sede Wto, mentre per le altre leggi in genere si riteniene sufficiente applicare delle “regole di buon senso” in grado di evitare conflitti e scontri ideologici.
In effetti anche la libertà d’espressione ha dei limiti nel furto di opere creative e nella divulgazione di oscenità e di dati personali, ma da un punto di vista legale le corporations non sono tenute a proteggere diritti altrui e possono o dovrebbero intervenire solo su mandato dell’autorità giudiziaria (almeno nei paesi democratici), o in seguito alla richiesta di chi si sente leso nei propri diritti. Invece negli stati autoritari il patrolling è basato sul conformismo e sulla censura preventiva, motivo per cui in Turchia, ad esempio, si possono cancellare le foto di Conchita Wurst, in Arabia i video delle donne che guidano la macchina o in Russia le immagini di due uomini che si baciano.
Tuttavia oggi che almeno il 35% dei giovani si rivolge ai social per informarsi, questi ultimi non dovrebbero comportarsi come si sono comportati i giornali nei paesi democratici e propendere per la tutela senza se e senza ma del free speech? Per non sbagliarsi Youtube ha da tempo chiesto aiuto agli utenti, ma ormai lo fanno tutti. E tutti possono denunciare comportamenti inappropriati sul canale sociale che frequentano per farli rimuovere.
Cosa accade però nel caso di richieste che confliggono con il diritto altrui a esprimere il proprio pensiero e la propria identità?
Non è una strada pericolosa quella di vigilare sulla moralità dei contenuti online? Siamo tutti d’accordo a censurare l’ISIS e i neonazisti, ma quando pretendiamo di fare scelte etiche ci esponiamo sempre al rischio che si traducano nel loro contrario. Siamo veramente sicuri di volerlo?