“L’arbitro e’ il venduto”, un libro sul funzionamento dei sistemi di rilevamento per tv, radio e internet.
Arturo Di Corinto
Il Manifesto 8 gennaio 2004
“Un’allucinazione consensuale vissuta contemporaneamente da milioni di individui”….No, non stiamo parlando del cyberspace di quel William Gibson che ha coniato questa definizione per descrivere “la matrice” – “la rete”, diremmo oggi – ma parliamo della presunta affidabilità dei sistemi rilevamento degli ascolti di radio, tv, siti web e case discografiche per stabilire il gradimento dei rispettivi prodotti mediatici.
E proprio di tali sistemi, Auditel, Audiradio, Hit Parade, Audiweb, Audisat ci racconta Giulio Gargia nel libro L’arbitro è il venduto pubblicato da Editori Riuniti (14 Euro), per dimostrare che questi “piccoli fratelli” non servono, come si dice, a monitorare gusti e umori di chi usa i media per migliorare la qualità dell’offerta, ma “solo” a stabilire quanto costa la pubblicita’ ad essi associata, secondo modalità tutt’altro che imparziali.
Infatti, se un buon metodo per interpretare la linea editoriale di un quotidiano è quello di leggerne la gerenza e sapere a chi appartiene, la cosa non è diversa per i sistemi di rilevamento del consumo di tv, radio e musica, i cui gestori coincidono con i responsabili dei prodotti che essi dovrebbero controllare, in barba alla legge che consegna tale compito all’Authority per le Telecomunicazioni. Il caso delle tv è eclatante. L’auditel, il sistema di rilevamento degli ascolti televisivi è, ad esempio, un consorzio costituito in parti uguali da tre grandi attori: la Rai, cioè il sistema radiotelevisivo pubblico (ma ancora per poco), le tv private (Mediaset in testa) e le associazioni dei pubblicitari a cui il sistema di rilevamento permette di “vendere le teste” dei consumatori, come si dice in gergo. Sì perchè ogni sistema di rilevamento si basa su questo assunto: il numero di spettatori o ascoltatori o cybernauti è il migliore indice di gradimento dell’offerta di radio, tv e siti Internet e quindi il criterio per stabilire quanto costa uno spazio pubblicitario. Piu’ ascolti vuol dire piu’ contatti e quindi piu’ sponsor e piu’ soldi. Facile no? Ma già qui c’è da fischiare il primo fallo.
Per la televisione, ad esempio, il numero di spettatori non dipende mai dalla sola qualità del programma ma è il il risultato della combinazione di almeno altri tre fattori: a) il numero di persone presenti in casa; b) le abitudini di chi sta davanti al televisore, c) l’offerta sulle altre reti.
Perciò c’è un’aporia logica in questo discorso che confonde la quantità con la qualità e che non considera il fatto che chi guarda un programma anzichè un altro “risponde all’offerta”, con scelte che somigliano al comportamento di chi va a votare per “il meno peggio” e “turandosi il naso”.
Perciò la qualità è una foglia di fico. Gli esperti dei palinsesti e della controprogrammazione lo sanno e, quasi a giustificarsi con gli investitori, dicono che quello che conta è sapere “quanti potenziali consumatori” vengono raggiunti dalla pubblicità di contorno al programma. Già qui c’è la seconda aporia: il fatto di avere il televisore acceso non significa prestare attenzione nè al programma nè alla pubblicità, sia per l’abitudine diffusa di fare zapping, sia perchè, è risaputo, le pause pubblicitarie servono per andare in bagno, mettere a letto i bambini, farsi un cicchetto. Ma anche questo non interessa. Quello che conta è sapere “chi” tiene accesa la tv e quali sono le sue capacita’ di spesa e le abitudini d’acquisto. Le telepromozioni all’interno dei programmi e i messaggi pubblicitari ripetuti su tutte le reti dovrebbero fare il resto. Non e’ per questo che la legge Gasparri ne aumenta il tetto di affollamento dentro i programmi?
Ma come si fa a sapere chi sta davanti al televisore? Basta quella macchinetta montata sul tv (l’audimeter) che registra l’input del “teleaudispettatore” chi gli si trova davanti?
No, non basta. E infatti uno degli scopi dell’auditel è la profilazione degli ascoltatori, cioe’ della cosiddetta “famiglia campione” che viene selezionata tramite inchiesta telefonica e successivo questionario in cui il prescelto deve indicare grado di istruzione, reddito annuo, composizione familiare, numero di tv, stereo e Vcr detenuti in casa. Il questionario non chiede se in casa entrano riviste e quotidiani, forse perché, come Berlusconi, sono convinti che chi guarda la tv non legge, motivo per cui i pubblicitari spendono poco sui giornali.
C’è però qualcosa di logico nell’analisi dei profili. Serve a decidere che la pubblicità di giocattoli va di mattina quando il target è la casalinga da guidare nell’acquisto per la prole, al pomeriggio quando è il bambino che deve orientare la mamma all’acquisto.
Ma se l’Auditel riesce a sapere chi e quando si guarda la tv perchè è un’allucinazione consensuale? In fondo funziona allo scopo di stabilire i tetti pubblicitari. È un’allucinazione perchè il sistema ogni tanto fa cilecca? Anche. Nel libro di Gargia sono riportati casi eclatanti di errori e distorsioni: dell’Auditel, che registra gli stessi ascolti anche quando i canali monitorati sono oscurati; dell’Audiradio che censisce solo 300 emittenti delle 1000 presenti sul territorio nazionale, col dubbio metodo delle rilevazioni telefoniche; dell’Audiweb, che usa parametri tali che basta giocare con le cifre per decretare il successo e l’insuccesso di un sito internet.
Che la missione di adattare domanda e offerta e favorire i consumi attraverso il rilevamento degli ascolti sia una farsa lo dimostra ancora una volta l’Auditel. Se essa è l’arbitro che certifica la qualità di un prodotto televisivo e quindi i costi della pubblicità in rapporto al numero di spettatori/consumatori, beh, è un’arbitro venduto, sennò avrebbe fischiato il fuorigioco a chi ha deciso di sostituire Santoro che faceva fino al 26% di ascolti con un Socci qualsiasi che raggiunge al massimo un misero 8%. Ma vuoi vedere che a decidere quello che va in onda non sono gli ascolti?