Che cos’è la neutralità della rete e perché è cruciale
Le ambiguità del governo italiano sulla net-neutrality sono state al centro dell’Internet governance forum a Roma e dimostrano l’importanza di regole condivise per la gestione e lo sviluppo della rete
di Arturo Di Corinto per Wired del 26 Novembre 2014
Ieri si è tenuto a Roma il sesto Internet Governance Forum italiano presieduto dalla Presidente della camera Laura Boldrini e introdotto dal giurista Stefano Rodotà. Una bella kermesse negli spazi dei gruppi parlamentari, monopolizzata però dalle critiche all’ambiguità con cui il governo italiano sta trattando in Europa il tema delle neutralità della rete. Un’ambiguità che è venuta a conoscenza dell’opinione pubblica grazie a una serie di documenti trapelati dalle organizzazioni per i diritti digitali, che confermano l’eliminazione del concetto di neutralità della rete negli emendamenti al più ampio pacchetto di riorganizzazione delle telecomunicazioni, il Telecom Package, portati dalla presidenza italiana all’approvazione dei 28 membri dell’Unione Europea.
Una posizione così tanto criticata durante l’incontro da giustificare ancora di più, se possibile, le importanti dichiarazioni della presidente Boldrini che ha affermato la necessità di regole per il web sovranazionali e condivise con gli utenti, in assenza delle quali vale la legge del più forte.
La net-neutrality, il principio per cui “tutti i bit sono nati uguali” è un principio fondante della Internet delle origini che può essere spiegato come la regola che nessun fornitore di connettività può scegliere i servizi e i contenuti a cui far accedere gli utenti o rallentare, degradare, e bloccarne il traffico se sgraditi o concorrenti. Un principio ribadito pochi giorni fa dal presidente americano Barack Obama che ne sta facendo una battaglia di libertà.
Perchè questa regola è così importante? Il motivo è presto detto: per decidere chi, con quali strumenti e a quale velocità, si può accedere a un sito o a un servizio in rete bisogna sapere cosa c’è nei pacchetti di dati che vanno e vengono nei tubi di internet. Solo allora si può scegliere se e come farli passare oppure no. La violazione della net neutrality è da sempre l’anticamera della censura nei paesi autoritari, ma anche il cavallo di troia di chi invoca misure draconiane per la prevenzione di comportamenti illeciti come anche la violazione, reale o presunta, del diritto d’autore online che, per essere accertata, ha bisogno appunto dell’ispezione di questi pacchetti.
Ma ce n’è un altro: la facilità e la velocità con cui accediamo a un servizio online, che si tratti della nostra webmail o di Facebook, di Wikipedia o di un sito governativo, decide sempre di più il valore di quei servizi e nel caso di attività commerciali, la loro fortuna economica. State pensando alle agenzie di viaggio online? Ai servizi di home banking? All’e-commerce di scarpe, vestiti, food, film e libri? Proprio quelli.
La discriminazione del traffico Internet. In realtà i fornitori di accesso usano da sempre sistemi per la gestione del traffico, capaci come sono di dedicare porzioni di banda maggiori per un servizio anzichè un altro. In linea teorica si tratta di un principio che vale in aeroporto dove i clienti business hanno una corsia veloce per fare i biglietti, vale all’ufficio postale dove le lettere urgenti costano di più di quelle ordinarie, vale negli ospedali dove se paghi ti visitano prima. Però non accade e non può accadere a scapito di chi paga di meno.
Ma è quello che avverrà se passa la linea delle “telco” che vogliono sì una “open internet”, ma non vogliono la “net neutrality”. Le aziende di telecomunicazione che offrono i “tubi” della rete vogliono discriminare il traffico dedicando a chi è disposto a pagare una maggiore quantità di banda passante (una “maggiore porzione del tubo”), di fatto creando corsie preferenziali. Il timore non è solo di dover pagare di più del solito per consentirlo, ma che, rimanendo uguale la capacità trasmissiva dei tubi, per farlo possono ridurre la quantità di banda dedicata a chi paga di meno.
Due effetti dannosi. Un precedente del genere in Europa giustificherebbe uguali interventi in paesi autoritari come Cina e Turchia per silenziare l’opposizione e il dissenso online con la scusa di gestire eventuali congestioni di traffico, mentre avrebbe l’effetto di costruire una internet su base censitaria nei paesi democratici, con la scusa di garantire servizi “essenziali”, con i fornitori di connettività pronti a scaricare i costi maggiorati sui propri clienti.
Non è ovviamente questo quello che vogliono le telco, sanno di scatenare le antipatie del pubblico, ma siccome con la caduta dei margini di profitto del roaming cercano risorse per ammordenare le reti, il loro obiettivo è divenatto quello di far pagare i cosiddetti over the top, Facebook, Google, Youporn, Netflix, cioè quelli che consumano più banda e che finora hanno risposto picche a concorrere economicamente a mantenere e sviluppare l’infrastruttura di Internet anche non pagando le tasse nei paesi dove operano.
Eppure una soluzione c’è. Visto che quello che conta è avere una Internet ad accesso paritario, veloce, con un costo accessibile per tutti, e la cui gestione offra adeguati profitti a chi la mantiene, è possibile aumentare la capacità di banda per fare spazio a ogni tipo di esigenza. Come? facendo intervenire la Banca Europea degli investimenti per finanziare le nuove infrastrutture e poi lasciare competere le aziende nel mercato ma nel rispetto di una regola semplice e condivisa: Internet sia considerata a tutti gli effetti un servizio universale, quindi un diritto di tutti, senza discriminazioni, magari scrivendolo nella Costituzione.