Meglio se taci, l’ipocrisia della libertà di parola in Italia
Il nuovo libro di Gilioli e Scorza fa il punto (non felice) sull’informazione in Italia: dalla libertà di stampa alla corruzione e alle decine di leggi contro la libertà d’espressione che giacciono in Parlamento
di Arturo Di Corinto per Wired del 23 Febbraio 2015
Il nostro bellissimo paese è un paese disgraziato. Ed è un paese disgraziato perchè è un paese ingiusto, ed è ingiusto perchè è profondamente corrotto. Una corruzione che ruba ai bisogni del paese almeno 60 miliardi di euro all’anno, soldi che invece di finanziare scuole, ospedali e trasporti, finiscono in paradisi fiscali e banche compiacenti. La colpa non è solo di imprenditori collusi coi poteri mafiosi e di funzionari dello stato infedeli e arroganti, ma anche di un sistema dell’informazione che rinuncia ogni giorno a svolgere il suo ruolo di cane da guardia della democrazia. E se questo accade non è solo per l’inaccettabile compromissione del potere politico con quello mediatico – che non si è ancora scrollato di dosso un sistema televisivo basato su un duopolio di fatto -, ma per le norme anacronistiche che regolano l’accesso alla professione giornalistica, per le minacce subite quotidianamente da chi fa informazione, per la cecità politica di decisori pubblici che trattano la comunicazione in Internet come un pericolo piuttosto che come una risorsa.
Le ragioni di questa drammatica situazione sono raccontati con una serie di esempi nel libro di Alessandro Gilioli (L’Espresso) e di Guido Scorza (avvocato, blogger e docente), dal significativo titolo “Meglio se taci” (Baldini & Castoldi), una disamina dei mali dell’italico sistema dell’informazione che i due allargano, a ragione, al mondo della comunicazione digitale. Il libro segue di pochissimo la pubblicazione degli ultimi rapporti che vedono l’Italia precipitare in tutte le classifiche della libertà di stampa.
Ci dice Alessandro Gilioli: “Quando abbiamo iniziato a scriverlo l’Italia era al 49° posto nel rating sulla libertà di espressione di Reporter senza frontiere e quando abbiamo finito al 73°” e, aggiunge Scorza, “Non c’è nessun segnale che si stia cambiando rotta, anzi, sembra che il nostro Paese sia ormai alla deriva verso la terra del silenzio”.
Il titolo a detta degli autori viene proprio dal fatto che “Viviamo un silenzio indotto da un sistema politico e normativo che premia di più chi tace, che chi scrive, parla, racconta, condivide informazioni.” “Da noi non c’è la censura – dice Gilioli – da noi si disincentivano fortemente le persone (non solo i giornalisti) a scrivere del potere politico ed economico.”
Ad esempio? “La cosiddetta legge sulla diffamazione, una norma anti blog e anti social network.” Che sono il vero cruccio di chi comanda, o no? “I media tradizionali rispondono a pochi centri di interesse politico ed economico con la conseguenza che per controllarli basta, il più delle volte, una stretta di mano nei Palazzi dei bottoni della politica e dell’alta finanza. Il web invece è policefalo, con la conseguenza che per metterne a tacere le voci più libere, si ricorre a strumenti diversi: leggi e leggine censoree, freni agli investimenti in risorse di connettività, nessun investimento in alfabetizzazione e cultura informatica.” Questa la tesi di Scorza. Ma Gilioli ci mette il carico da quaranta: “Ai tempi di Berlusconi la libertà del web in Italia era una preoccupazione diffusa. Adesso invece le difese sono molto calate e le minacce no, anzi, e vengono dalla politica, ma anche dalle corporation di Internet.”
Quindi il problema non dipende dallo scarso coraggio dei giornalisti, dalla paura delle querele, dall’incapacità di andare oltre il sensazionalismo, di indagare e denunciare, ma dal sistema nel suo complesso? “Dividerei in tre tipi la cattiva informazione” – ci dice Gilioli – “Quella che è cattiva per la superficialità dei giornalisti; quella che è cattiva perché fatta in mala fede e senza onestà intellettuale, magari per tifo politico; quella che è cattiva perché un potente elemento esterno – i poteri economici e politici, la malavita organizzata, gli inserzionisti pubblicitari -, impedisce che sia onesta. Nel libro cerchiamo di definirne alcuni.”
Ma l’atto d’accusa contenuto nel libro offre anche delle soluzioni, a cominciare dalla richiesta di una legge sulla trasparenza amministrativa come il Freedon of Information Act americano, il ripensamento delle norme che regolano il giornalismo, e contempla il sussulto d’orgoglio di un Parlamento che possa finalmente considerare gli operatori dell’informazione alleati e non nemici da zittire, con la scusa, magari, di aver violato il copyright dai loro siti. E con una stella polare davanti: ogni reato d’opinione va perseguito garantendo l’accesso a un giudice e a un giusto processo, per garantire sia i diritti dell’offeso che di chi svolge il suo mestiere, proteggendolo da querele temerarie e da ogni altro tentativo di censura.