Innovazione negli ecosistemi digitali
Arturo Di Corinto
Per Den4DEk – 11 giugno, Roma
Innovazione e produttività, sono un binomio inscindibile per competere meglio nello scenario globale in una situazione di crisi. Lo sa l’Unione Europea, che su infrastrutture, innovazione e società dell’informazione ha appena fatto una grossa scommessa di molti milioni di euro. Lo sanno le associazioni di categoria che, come Confindustria, non hanno fatto mancare le proprie proproste ai governi. In Italia lo sa il ministro della Funzione Pubblica e dell’Innovazione Brunetta che vuole applicare la formula a tutto il settore pubblico facendo leva sull’e-Government, come già tentato con alterne fortune dai suoi predecessori.
E a ragione, per tre ordini di motivi: il primo perchè la PA è responsabile dell’attuazione delle politiche del parlamento che influenzano la qualità della vita dei cittadini e la loro fiducia; secondo perchè è probabilmente vero che da un recupero di produttività della PA dipendono due punti percentuali del nostro PIL, terzo perchè la domanda diretta e indotta della PA può essere il volano della ripresa prossima ventura. Perciò facilitare l’attuazione delle politiche di Governo nella società tutta e non solo nei settori di spesa, può fare la differenza e determinare un effetto di trascinamento positivo complessivo.
E’ stato più volte ribadito, e con forza, che l’e-Gov, l’erogazione di servizi telematici a cittadini, enti e imprese, non può più essere pensato senza l’adeguata reingegnerizzazione dei processi interni alla PA e che questa non può prescindere da un ripensamento complessivo delle dinamiche interne alla macchina burocratica, ma richiede nuovi standard di qualità e funzionamento nei rapporti interni tra gli uffici, tra i manager e i dipendenti, tra i dipendenti e i cittadini, basati su qualità, efficienza, efficacia e risparmio. Standard che devono garantire risparmio di tempo e di soldi, accessibilità di strumenti e procedure, certezza dell’azione amministrativa, verifiche della sua qualità.
Per questo l’Italia ha elaborato il “Piano E-Government 2012″ con l’obiettivo di praticare scelte coerenti con l’usurata ma non vieta, strategia di Lisbona, attraverso lo sviluppo e l’ aggiornamento degli strumenti esistenti per meglio utilizzare le nuove tecnologie ICT al servizio del sistema paese. In parte è l’obiettivo di iLazio2010.
Secondo il Ministro Brunetta i punti più qualificanti del piano “che devono risultare raggiungibili, monitorabili, e commisurati alle risorse disponibili” sono centrali per l’accessibilità e la trasparenza della pubblica amministrazione e sono in linea con la richiesta UE di ridurre del 25% gli oneri amministrativi e includere nel processo i gruppi sociali svantaggiati e delle regioni arretrate. I quattro ambiti di intervento prioritari del piano si fondano su 80 progetti e contano su un impegno finanziario di legislatura di 1.380 milioni di euro: per le amministrazioni centrali dello Stato e le Università, le regioni e i capoluoghi; ma anche per infrastrutture, accessibilità e servizi.
Nel concreto si tratta di far decollare i pagamenti e la fatturazione elettronica verso la PA, la digitalizzazione delle scuole e delle sue principali attività amministrative; la Giustizia, con comunicazioni e notifiche giudiziare telematiche, l’archiviazione e la consultazione informatica dei procedimenti, i certificati giudiziari on line e infine la trasmissione telematica delle notizie di reato dalle forze di polizia alle Procure. E poi intervenendo sulla grande partita della Sanità con la digitalizzazione di prescrizioni e certificati medici e la creazione del Fascicolo Sanitario Elettronico. Ma ci sono anche i provvedimenti per le imprese onde favorirene gli adempimenti. Infine, tutta la partita della cittadinanza elettronica, passaporto, carta d’identità, anagrafe catastale degli immobili via SPC e la casella elettronica certificata al fine di dematerializzare lo scambio di documenti con le pubbliche amministrazioni.
Non si tratta di cose nuove. La Direttiva del luglio 2005 del Dipartimento per l’Innovazione e le Tecnologie emanata dal Ministro Stanca, insisteva su: a) l’estensione dei servizi on line; b) gli strumenti di comunicazione e di collaborazione “web 2.0”; c) la qualità dell’amministrazione pubblica e d) la customer satisfaction. Quattro diretttrici d’azione poco praticate e peggio recepite dalla macchina pubblica e dalla burocrazia.
Ora è evidente a tutti che per passare dagli annunci ai risultati il percorso è sempre accidentato e che qualsiasi risultato non può prescindere del raggiungimento di una serie di obiettivi sul terreno delle risorse umane e quindi del miglioramento della qualità dei luoghi di lavoro e dei suoi rapporti interni, e l’adeguata compensazione di chi lavora e la loro motivazione, senza i quali non si può pensare di migliorare la qualità offerta al cliente creando efficienza e riducendo i costi amministrativi e i tempi di risposta delle Pa locali e centrali.
Sono infatti le variabili sistemiche del malfunzionamento della macchina pubblica ad essere il nocciolo del problema: insufficiente dotazione finanziaria degli uffici, inadeguata formazione delle risorse umane, età elevata dei dipendenti, una scarsa mobilità, e una piramide manageriale da ristrutturare, insieme a un ritardo culturale complessivo nell’uso interno degli strumenti informatici a fini organizzativi, formativi e di servizio.
Non solo, esiste anche un gap tecnologico, per cui la PA fatica ad avvalersi della pluralità delle soluzioni tecnologiche informatiche disponibili restando spesso legata agli stessi fornitori di tecnologia, incapace di sfruttare le potenzialità del riuso e del mercato elettronico della PA per superare l’obsolescenza indotta delle sue dotazioni. Tutte cose che cittadini, associazioni e imprese da anni denunciano inascoltati. Perciò per praticare gli obiettivi non sembra assurdo ripartire da qui: benesse organizzativo e formazione degli impiegati pubblici, tecnologie semplici, accessibili, economiche e trasparenti come l’open source, circolazione di dati e informazioni pubbliche gratuite o tutelate da licenza flessibili come le creative commons, strategia d’ascolto verso gli stakeholder dei processi e verifiche e consultazioni pubbliche, ampie e frequenti, coi cittadini, veri terminali dell’efficacia della PA.
L’innovazione dal basso
Finora le politiche di e-Government in Italia hanno puntato molto alla modernizzazione della macchina pubblica e solo parzialmente alla creazione di servizi innovativi per i cittadini e le imprese. Inoltre le politiche pubbliche hanno spesso trascurato il ruolo attivo che i cittadini (e le imprese) possono svolgere nella definizione, progettazione e realizzazione dei servizi che poi useranno. Eppure perchè l’e-Government possa traghettarci verso una società dell’informazione inclusiva, bisognerebbe favorire proprio l’effettiva partecipazione dei cittadini allo sviluppo di strumenti, policy e decisioni pubbliche, in un contesto di sicurezza, privacy, autonomia, rispetto e fiducia reciproca. Secondo precise direttrici di sviluppo: innovazione, efficienza, trasparenza, partecipazione, ecologia.
Primo. L’innovazione riguarda metodi, tecnologie e contenuti. Il riuso dei dati e delle applicazioni,del software e dell’hardware, facilitati come sono da soluzioni open source e di green computing, non solo permettono un risparmio di denaro e la valorizzazione di asset deperibili come l’ambiente, ma sono altrettante strategie innovative nella gestione delle ICT applicate al cambiamento. Secondo. L’efficienza dei servizi resi, che presuppone un trasferimento efficace dell’informazione, produce valore economico solo se diventa veicolo di siluppo e promozione del territorio, di valorizzazione e tutela del patrimonio, di coesione, e integrazione sociale, pertanto l’accesso ai suoi contenuti non può prescindere dall’adozione di standard riconosciuti, dall’interoperabilità dei dati e degli applicativi. Terzo: mentre il miglioramento del rapporto costi/benefici nell’erogazione di beni e servizi a cittadini e imprese passa per l’incremento dell’efficacia e dell’efficienza della comunicazione dei servizi online, non si può sottovalutare il ruolo che portali, blog, social networks hanno nel favorire la partecipazione e la trasparenza delle azioni istituzionali.
Queste condizioni dell’innovazione si ritrovano proprio negli ecosistemi digitali all’interno dei quali l’innovazione si configura come un processo emergente dalla collaborazione creativa fra soggetti che utilizzano risorse comuni per costruire qualcosa di nuovo, utile e originale, in grado di adattarsi velocemente alle esigenze dei mercati e delle persone secondo un processo evoluzionistico che dai dati produce informazioni, dalle informazioni conoscenza distribuita, dalla conoscenza distribuita prodotti usabili il cui ciclo di evoluzione è iterativo per definizione.
Perciò se l’obiettivo di fare dell’Europa la più vasta e competitiva economia della conoscenza è sempre attuale, per realizzare una crescita sostenibile, una migliore qualità della vita, una maggiore coesione sociale e migliori condizioni di lavoro, il settore pubblico deve usare diversamente la leva dell’egovernment e valutare in una nuova ottica il contributo caotico, emergente, di tutti gli stakeholder per farli diventare shareholder
In particolare, secondo l’IPTS (Institute for Prospecrive Technological Studies) i trend socio-tecnici rappresentati dal Web 2.0 possono avere specifiche implicazioni per i servizi pubblici innovativi quali l’eGovernment, l’eHealth e l’eLearning.
Infatti, a dispetto del limitato uso dei servizi online di governi e amministrazioni, le tecnologie alla base del web 2.0 hanno dimostrato di avere un eccezionale impatto nella vita sociale, nell’industria dell’intrattenimento, della pubblicità e dei media. Le applicazioni web based del web 2.0 si fondano sul concetto dell’utilizzatore come produttore: di software (free and open source software); di contenuti (blog, vlog, wiki, Flickr, Youtube), di tendenze, (Last.fm, de.li.cious), di reti sociali (Myspace, Facebook. Linkedin) e di reputazione (eBay). E si fondano anche sull’idea dell’utente come fornitore di connettività (wifi sharing, mesh networks) e di business intelligence.
Le tecnologie alla base del web 2.0 sono innnovazioni introdotte negli ultimi venti anni per incrementare usabilità, integrazione e riuso di applicazioni web che a loro volta consentono la pubblicazioni di dati e informazioni in maniera agile e veloce, di condividerle, e di farlo collaborando. Infatti si tratta di applicazioni che, come dice O’Reilly, “più vengono usate, più migliorano”, e la collaborazione che ne risulta è sempre maggiore della somma dei suoi elementi. Che è esattamente quello che accade negli ecosistemi digitali
Sistemi che fanno cooperare soggetti in modo orizzontale e autonomo producono una crescita culturale maggiore di sistemi tecnologici proprietari e gerarchici oppure di una formazione oramai
obsoleta e costosa.
Sulla necessità di una accelerazione nello sviluppo innovativo della cultura e della tecnologia nella regione lazio basata su questi presupposti non dovrebbero esserci dubbi.
Una cosa che hanno scritto i famosi e abusati stakeholders è: “Gli ecosistemi digitali possono
essere uno strumento che con le opportune risorse finanziarie ed umane, potrà divenire una
struttura socio-tecnica competitiva che ben figura nel contesto europeo.
Soprattutto sarà fondamentale rinforzare il rapporto sociale e fiduciario tra gli attori del
nostro territorio che permetta di valorizzare tutte le attività produttive ed istituzionali presenti.
Per intenderci, quando parliamo di web 2.0 parliamo di una combinazione di tecnologie (Ajax, XML, OpenAPI, Microformats, Flash/Flex), di applicazioni (Blog, Wiki, Podcast, RSS feeds, Tagging, Social Networks, Search Engine, MPOGames), di valori e principi (l’utente come autore, l’intelligenza collettiva, la continua sperimentazione, l’estrema facilità d’uso).
Gli strumenti del web 2.0 sono già stati usati all’interno del settore pubbico e governativo, e gli esempi sono molti. Fra i più interessanti possiamo citare Intellipedia, Peer to Patent, PatientOpinion, Mybikelane, Culturalazio, Openpolis.
Al di là dei singoli progetti, la natura di tale impatto riposa principalmente sul ruolo proattivo degli utenti che producono contenuti, offrono valutazioni, recensioni, manipolano contenuti generati da altri utenti, offrono saggi di gradimento e attenzione. Si tratta di un work in progress, dove il valore della partecipazione si trasforma in servizi.
I benefici specifici di questo approccio possono aiutare le amministrazioni a rendere il loro governo: semplice e orientato all’utenza, trasparente e affidabile, partecipativo e inclusivo, ampio e coeso.
Si tratta di un utilizzo delle tecnologie di rete che non si può ignorare e che sta portanto profonde modificazioni in ogni ambito della comunicazione, congiutamente ad altri trend come il consumo consapevole, la formazione di una classe di knowledge worker, l’importanza sempre maggiore dell’apprendimento informale, la comunicazione delle conoscenze tacite e implicite, l’innovazione diretta dagli utenti, nuove forme organizzative a rete e la commercializzazione del mercato IT.
Il web 2.0 funziona bene in contesti di alta fiducia reciproca, e in ambienti caratterizzati da una forte spinta alla collaborazione e alla condivisione di tipo knowledge intensive. Ma una forte spinta e un’alta motivazione strategica fanno il resto. Insieme a una goverance chiara e definita degli ambienti che le interazioni web based creano.
Case studies
All’interno del portale dell’Economia partecipata (economiapartecipata.it) è possibile consultare i documenti sul Bilancio, sulla programmazione economico-finanziaria e sulla partecipazione democratica nel Lazio. Culturalazio.it è un sistema di produzione di conoscenza per organizzare, archiviare e condividere dati e informazione insieme alla cittadinanza www.culturalazio.it. ArcheoTRAc è un progetto rivolto alla gestione dei beni archeologici e l’obiettivo del sistema è quello del recupero e della valorizzazione del patrimonio informativo che essi generano.
Cosa hanno in comune i tre progetti? Sono nati su iniziativa di alcune Regioni, rispettivamente il Lazio e la Valdaosta, e sono tutti basati su tecnologie open source. I motivi di questa scelta tecnologica sono simili: trasferire investimenti dall’acquisto di licenze alla formazione di utenti e operatori; promuovere la diffusione e l’evoluzione della metodologia impiegata attraverso il riuso della soluzione, favorire la concorrenza e la partecipazione.
Vuol dire che la Pubblica Amministrazione italiana ha deciso di investire nel software libero? In parte sì. Da una recente ricerca della Venice International University-Tedis emergerebbe la volontà della PA di dotarsi di software libero per risparmiare, affrancarsi dal legame con un fornitore unico, sviluppare le competenze interne.
Ma non si tratta di solo risparmio, anche se in una fase di recessione economica il software libero potrebbe avere una funzione “anticiclica” e la Pubblica Amministrazione svolgere in questo un ruolo guida.
Bisognerebbe però attivare lo Strategic procurement per i servizi OS, attraverso meccanismi che semplifichino l’accesso da parte delle PA ai servizi delle PMI, immaginando un mercato elettronico dell’OS e sviluppando i centri di competenze regionali per favorire l’abbattimento dei costi e la standardizzazione delle customizzazioni. Le Pmi sono infatti da tutti considerate il fattore abilitante per favorire la diffusione di un sistema a livello locale. Se a questa riflessione aggiungiamo che per l’ISTAT, l’adozione di sistemi operativi liberi o Open Source nelle imprese italiane nell’anno 2007 è stata pari al 12,2% del totale, con punte del 39,7% tra le aziende con oltre 250 dipendenti, il gioco è fatto.
Ma allora perchè la PA italiana è così lenta ad interagire con il mondo open? A parte i limiti, e i vincoli, della macchina pubblica, per Tedis uno dei motivi principali è che l’“offerta Open Source” è composta da aziende non omogenee, e dal fatto che nonostante l’alto numero di programmatori italiani attivi nel settore, risulta defilato il ruolo delle università italiane nella contribuzione di codice aperto: nessuna di esse compare tra le prime dieci università al mondo per codice sviluppato e condiviso nell’area dell’Open Source. Ma “in realtà quello che manca è una visione strategica”. “Rendere disponibile il patrimonio di conoscenza delle community professionali e dei database pubblici anche per le imprese italiane sarebbe un modo per spostare verso l’alto la frontiera delle capacità produttive del Paese, come spinta complementare alla crescita degli investimenti pubblici in infrastrutture”. Open source, open standard e open framework, insieme al concetto delle opere creative commons, possono essere motore di innovazione del concetto più profondo di Pubblica Amministrazione: essere produttori di conoscenza condivisa a favore del cittadino. Insomma, da una PA che produce servizi, ad una PA che produce conoscenza e contenuti condivisi e riusabili.