Arturo Di Corinto
22/10/2005 – Il Manifesto
Che Yahoo! sia stata corresponsabile dell’arresto e della condanna a 10 anni di carcere di un giornalista cinese reo di aver spedito una email sgradita al suo governo, è cosa nota. I giornali progressisti gli hanno dedicato un paio di articoli di fondo, a Roma i Verdi hanno protestato davanti all’ambasciata cinese e in rete è addirittura stata partorita una proposta di boicottaggio nei confronti di Yahoo!.
Per quelli che considerano la libertà un valore da difendere la questione però non finisce qui. E non solo quando si parla di regimi autoritari come la Cina, che obbligano colossi come MSN e Google a bandire dal lessico dei motori di ricerca e dalle mailbox parole come “democrazia”, “libertà” o “Tibet”, ma anche quando si sostiene la liceità della violazione della privacy per “proteggere la proprietà intellettuale delle aziende” come ripetutamente sostenuto dall’industria discografica. Sono due facce della stessa medaglia.
E allora, cosa fare di fronte all’impasse della politica e al mediocre dibattito pubblico su queste vicende? Un insieme di soggetti ha proposto una Carta dei diritti della rete, che insieme al diritto di accesso e utilizzazione di Internet e delle sue tecnologie, alla valorizzazione dei beni comuni immateriali, considera il diritto alla privacy come un principio impresindibile per l’attualizzazione della libertà che la rete promuove e rappresenta. Firmata tra gli altri da Walter Veltroni, Gilberto Gil e Stefano Rodotà sarà presentata e discussa anche al prossimo Summit sulla società dell’informazione che avrà luogo a Tunisi dal 16 al 18 novembre con l’obiettivo iniziale di avviare una discussione globale sull’argomento.
Tuttavia di fronte alle resistenze di quei paesi che vogliono assumere il controllo governativo della rete e vegliare i comportamenti privati dei loro cittadini l’avvio di un tale processo sarà assai complesso.
Per questo si moltiplicano le voci di quei soggetti che affermano l’esigenza di tutelarsi da soli ripensando il ruolo delle cosiddette “privacy enanching technologies”, cioè delle tecnologie per aumentare la privacy come la crittografia (l’arte e la scienza delle scritture segrete) e le reti peer to peer che consentono, come un tempo i BBS (bulletin board system), la comunicazione uno a uno, da pari a pari, ma senza il problema del “middle man”, quello che si mette in mezzo e fa la spia, perché queste reti sono schermate all’invadente occhio elettronico con potenti software di cifratura.
Le continue censure nel cyberspace ci fanno legittimamente porre la domanda se esiste un diritto alla resistenza attiva quando il mondo del profitto e del potere cospira per limitare la libertà d’espressione. Secondo Ross Anderson questo è esattamente quello che va fatto.
Ricercatore nel campo della sicurezza di rete, pioniere nello sviluppo di reti peer to peer, collabora col Massachussettes Institute of Technology, e in giugno Anderson ha pubblicato un testo per spiegare come sia possibile resistere ai tentativi delle aziende di penetrare i sistemi peer to peer, si chiama: “The economics of censorship resistance” dove spiega come muoversi in ambienti “digitalmente ostili”. www.cl.cam.ac.uk/users/gd216/redblue.pdf
Lui che viene dalla battaglia che oppose il provider Penet alla chiesa di Scientology per non voler denunciare l’autore delle critiche verso i discutibili metodi di quella chiesa, ha spesso dichiarato che non gli interessano le guerre di religione “ma difendere le libertà che tutti abbiamo acquisito dall’invenzione di Gutenberg in poi”. Adesso sta sviluppando un sistema peer to peer di nuova generazione…. E non è da solo
Di privacy, anonimato e crittografia parlerà domani allo Smau di Milano Ian Clarke che ad agosto nella città di Las vegas aveva già presentato la nuova versione di un sistema di scambio di file (file-sharing) basato su tecnologia peer to peer che serve “a scambiarsi informazioni digitali in maniera anonima e rendere il controllo sociale di governi e multinazionali più difficile”, affermando che il sistema “non è pensato per aggirare le norme sul copyright ma per aggirare la censura e la repressione politica”, come nel caso di cui sopra.
Ci si potrebbe scommettere, visto che si tratta dello stesso Ian Clarke della rete Freenet, un progetto, un software, un’architettura dell’informazione per la condivisione di notizie e materiali digitali che non è ancora caduto nelle maglie dei tribunali al contrario di Grockster e Streamcast non solo perché utilizza una diversa tecnologia di smistamento dei pacchetti d’informazione, ma perché basato sull’idea del web of trust, cioè di una “rete sociale basata sulla fiducia”. Nel sistema si entra su invito e quelli che lo usano spesso si conoscono o semplicemente si fidano di chi ha introdotto il neofita di turno. L’unico “difetto” è che è più difficile da usare e siccome non si può chiedere a tutti di essere abbastanza paranoici o svegli per tutelarsi dal punto di vista tecnologico, Clarke e gli altri lo stanno migliorando e rendendo più semplice. L’annuncio era di agosto e domani potrebbe essere dato l’annuncio della nuova versione.
Clarke laureato in Intelligenza Artificiale e Informatica all’Università di Edinburgo, non è un solo un computer geek, uno che si attacca come un geco al computer, ma una persona consapevole che dice esplicitamente di avere un intento politico quando disegna sistemi sicuri per la condivisione di file e che “può essere che qualcuno usi il sistema per aggirare le norme sulla proprietà intellettuale ma l’uso naturale di Freenet è per i gruppi di politici dissidenti, in Cina, ma anche negli Stati Uniti”. E a chi lo rimprovera di aiutare i terroristi risponde: “cose come il terrorismo sono il risultato dell’assenza di comunicazione”. È facile essere d’accordo, non si può confondere la malattia con la cura.