Intermittenti, senza garanzie sociali e spesso con una paga di fame. «I precari. Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro», una ricerca sulle nuove forme di lavoro per DeriveApprodi
ARTURO DI CORINTO
il manifesto – 22 Giugno 2002
Il ciclo produttivo ha scavalcato (da tempo) le mura della fabbrica e si è esteso alla società tutta. Le forme emergenti dell’economia oggi si identificano con la produzione di beni, merci e servizi immateriali, e il lavoro si configura sempre di più come manipolazione di dispositivi cognitivi, ricreativi, ludici, estetici, relazionali. La materia prima di questo tipo di produzione è il linguaggio che, con l’avvento delle reti telematiche e dell’automazione informatica, diventa fattore immediatamente produttivo laddove è la capacità umana di comunicare ad essere irregimentata nella filiera produttiva per creare valore a partire dal sapere e dalla conoscenza. In altri termini, il lavoro è diventato lavoro cognitivo. Ma il linguaggio messo in produzione è anche quello degli affetti e delle relazioni, espressione di una competenza socialmente acquisita che consiste nel modulare la propria attività lavorativa sui bisogni altrui. È l’altra faccia del lavoro nell’era dell’informazione, quella della diffusione dei lavori faccia a faccia col «cliente», effetto di una trasformazione della società dove la giornata lavorativa sociale si allunga perchè sussume il tempo di vita, e che, insieme all’erosione del Welfare State, ha reso necessario appaltare il lavoro di riproduzione e di cura.
Questa «rivoluzione», che per convenzione chiamiamo postfordismo, ha generato una serie di cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nelle forme della soggettività. Perciò si parla di «nuovi lavori», come risultato del passaggio da una economia manifatturiera a una immateriale, perciò si parla di lavoro «atipico», per la diffusione di contratti individuali, a termine, di consulenza e collaborazione, da «imprenditori di se stessi» in netto contrasto con le garanzie e le tutele del lavoro a tempo indeterminato tipico della produzione fordista.
Un lavoro che mettendo in produzione conoscenza del territorio, competenze relazionali e saperi diffusi, si modula in un processo complesso basato su una cooperazione sempre più stringente e che mostra la sua potenza in quanto incastrato in complesse filiere di reti sociali e che, proprio per questo, rappresenta una linea d’ombra fra cooperazione sociale e biopolitica, fra autovalorizzazione e capitale, fra libertà e controllo.
Ma la vera tipicità di questi nuovi lavori sta nell’intermittenza e nell’insicurezza diffuse, perché in un società in cui i diritti sono comunque legati alla partecipazione al sistema del lavoro salariato, essa produce nuovi tipi di esclusione. Il lavoro in nero, in apprendistato, in affitto, il lavoro senza garanzie produce lavoratori precari e precarizzati con «una paga da fame».
Il postfordismo ha generato questo precariato diffuso e un nuovo spettro che s’aggira per l’Europa, anzi no, nel villaggio globale, perchè la nuova organizzazione produttiva disloca il lavoro e i lavoratori nello spazio e nel tempo, e rende i suoi soggetti frammentati, dispersi e in competizione fra di loro. Lavoratori che neppure si percepiscono come classe, oggetto di sfruttamento nel nuovo regime dell’accumulazione flessibile. E allora come rappresentare i bisogni, le aspirazioni, le rivendicazioni della galassia del lavoro precario?
Una proposta organica, frutto di un lavoro d’inchiesta realizzato con il metodo della conricerca, e che riassume un dibattito ormai ventennale nella sinistra radical-riformista, viene argomentata dal giovane ricercatore sociale Andrea Tiddi nel suo ultimo lavoro: Precari. Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro edito da DeriveApprodi (pp. 130, E. 9,30).
Il discorso, complesso, ma affrontato in maniera efficace e puntuale dall’autore, è che se è l’intera società ad essere una macchina di produzione di profitto attraverso la comunicazione, il linguaggio, la socialità, fuori e al di là dell’ orario di lavoro, i lavoratori che prendono coscienza della loro condizione di «lavoratori sociali» possono rivendicare un «reddito di cittadinanza, universale e incondizionato, indipendente dalla prestazione lavorativa per tutte e per tutti», come retribuzione del «tempo di produzione» che esorbita dal tempo di lavoro, nella forma di una erogazione monetaria diretta e come reddito indiretto attraverso l’accesso gratuito ai servizi sociali.
Non si tratta perciò di una nuova misura redistributiva ma della riconcettualizzazione della natura stessa della produzione contemporanea. Perchè, se è vero che le forme contemporanee del lavoro si danno attraverso la messa in produzione della cooperazione sociale e delle qualità umane più intime (la capacità di comunicare saperi e attenzione), se si allunga il tempo della giornata lavorativa sociale, se è vero che in ogni merce, in ogni lavoro c’è una fortissima componente di non-lavoro, cioè di lavoro non retribuito, se è vero che esiste una sproporzione fra gli investimenti formativi individuali e la prospettiva del reddito, se è vero che la cooperazione sociale non viene più supportata dalla spesa pubblica, ci si deve porre il problema di come retribuire la parte di lavoro che non viene corrisposta e liberare nuove risorse sociali e produttive. Perciò retribuire il non-lavoro incorporato nella merce lavoro può tradursi, nelle proposte di Andrea Tiddi, in una ipotesi di liberazione e di ricomposizione sociale.
Una tesi quindi in contrapposizione con le proposte di sostegno alla disoccupazione che tentano soltanto di contenere il conflitto fra capitale e lavoro secondo modalità che però non riescono a nascondere la loro natura ricattatoria e di controllo sociale. In un certo senso il libro dà voce e parole a quanti sono scesi in piazza contro l’abolizione dell’articolo 18 e per la sua estensione a tutte le categorie di lavoratori, a chi non crede alla logica dei padri contro i figli che discende dalla teoria delle sue società: quella dei precari e quella dei garantiti. Perchè i precari, «questi sconosciuti», sono quei «riservisti» che il padronato cerca di manovrare contro chi è stato finora «protetto» dallo Statuto dei Lavoratori e dallo stato sociale. Perciò quella del reddito di cittadinanza è una battaglia che non riguarda soltanto i precari ma i lavoratori tutti. Più soldi, più tempo, nuovi diritti per tutti: questa è la flessibilità che i precari pretendono. Altro che libertà di licenziare.