Piccolo manuale di autodifesa intellettuale

Emulazioni aggressive, atteggiamenti gregari e irriflessivi, banalità informative e imbrogli patenti di politici e potenti, ipnotizzano e domano il gregge, il popolo bue, incanalando pulsioni irrazionali in guerre commerciali, conflitti religiosi e terrorismo suicida. Siamo consapevoli del disastro umano e ambientale prodotto dal consumismo, eppure continuiamo a consumare; siamo certi di essere sudditi anzichè cittadini, eppure continuiamo a votare; siamo convinti che la libertà non si baratta, eppure continuiamo a svenderla; ci lamentiamo dell’assenza o del degrado dei rapporti sociali e non riusciamo a cambiare i nostri.
La corruzione e la mancanza di trasparenza dominano la vita associata, ma lo stigma morale funziona fintanto che non sono i nostri clientes a beneficiarne; le regole debbono valere per tutti, ma quando tocca a noi, ogni trasgressione è tollerabile, invocando lo stato di necessità; la menzogna permanente è inaccettabile ma ci aiuta a vivere; il rispetto per l’altro da sé è fondamentale, “ma quando ci vuole ci vuole”.

All’affermarsi di un luccicante mondo della comunicazione, globale, istantanea, multilingue, corrisponde la chiusura del sé e l’incapacità di esercitare empatia e compassione. Così se a ogni processo di globalizzazione corrisponde un processo di localizzazione che arriva a pescare nelle passioni più torbide e sconfina nell’esaltazione del suolo e del sangue come appartenenza, in una deriva identitaria che produce odio, politico, etnico o religioso, attraverso l’esaltazione della differenza, biologica o culturale, l’ansia da insicurezza ci dispone a cercare tutela nel facile e nel conosciuto.

Ogni struttura, sottoposta a una veloce accelerazione tende a cedere. Questo vale anche per le nostre strutture cognitive, quelle con cui percepiamo e interpretiamo il mondo. La fatica di riconfigurare modelli mentali e schemi cognitivi è troppa, perciò conviene restare in superficie e ragionare per stereotipi, dimenticare o essere rassicurati, da mamma TV o dallo psicanalista. L’importante è costruire le impalcature per reggere la struttura sbilenca del principio di realtà che lotta con i desideri frustrati e la paura del domani.

La gestione della dissonanza cognitiva – la differenza tra ciò che sappiamo e ciò che siamo pronti a nascondere -, lo spostamento di attenzione ed energie verso l’appagamento immediato o la proiezione della ricompensa in paradiso, insieme alla rimozione consapevole, sono da sempre le fondamenta delle società che si basano sull’indottrinamento politico, ideologico, religioso. In una società mercificata inondata da flussi immateriali in cui si compete per appropriarsi di beni estetici, ludici, ideativi, e in cui l’informazione è diventata una commodity, un bene di consumo, la prevalenza del simulacro sul reale rende inutile ogni forma di critica. La società dello spettacolo come la definiva Guy Debord ci appaga proprio per quello che non ci dà, la voglia di conoscere, gli strumenti per capire, la chance di vivere in prima persona invece di avere esperienze vicarie del reale.
In un mondo di realtà virtuali, mediatizzate, indirette, alberga quella pericolosa tendenza che ci induce a credere a tutto ciò che viene scritto, a tutto ciò che viene detto, senza verifica, senza domande.
Eppure viviamo in un’epoca in cui tutto si può raccontare, tutto può essere pubblico, tutto può essere discusso, compreso e verificato grazie a Internet e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nonostante l’autogestione della propria informazione però, un ruolo di primo piano viene giocato dai media mainstream e dai loro officianti, i giornalisti, i promoters, gli spin doctors, le agenzie globali di comunicazione.
Siamo così convinti che il giornalismo professionista stia a guardia della frontiera fra ciò che è di interesse pubblico e ciò che non lo è – il watchdog della democrazia – che dimentichiamo che esso è una “tecnica del racconto”, un modo professionale per selezionare e plasmare aspetti particolari della realtà, al fine di renderli masticabili a chi non ne ha avuto esperienza, e dimentichiamo che esso oggi soccombe a logiche commerciali, alla competizione sfrenata per catturare il tempo d’attenzione delle teste da vendere alla pubblicità con tecniche narrative che trasformano in verità anche la patente menzogna. Sfruttando le auree regole del giornalismo, è possibile confezionare eventi mediali e pseudoeventi, rispettando i valori notizia raccontatici da Mauro Wolf, decano della Sociologia della Comunicazione. Ma anche sfruttando l’uso sapiente di certi marcatori linguistici, garantendo la credibilità delle fonti, modellando contenuti verosimili.

Procedimenti “disinformativi” noti, oggi hanno un alleato in più: il linguaggio digitale, con le sue inedite possibilità di continua ricostruzione del reale, tramite la confezione di prove oggettive, soprattutto visive, ad alto impatto emotivo che, unite al carattere virale di sms ed e-mail, irrobustite dai rimandi ipertestuali fra siti che si certificano a vicenda, rappresentate nel top ranking dei motori di ricerca, trasformano ciò che è appena plausibile in qualcosa di concreto e reale.
Ugualmente, siamo così convinti che la comunicazione istituzionale debba rispondere a criteri oggettivi e che i suoi contenuti non siano né manipolati né orientati perché al servizio del cittadino, che non ci accorgiamo di come essa sia mirabilmente confusa e sostituita dalla comunicazione politica, quella che invece è frutto dell’interpretazione che i governanti danno della loro missione, che viene piegata ai suoi interessi dagli spin doctors, gli stregoni della notizia, i quali hanno il compito di “to sex up”, di rendere seduttiva e attraente, un’informazione spiacevole o sgradita al potente di turno. Analogo è il destino per la comunicazione scientifica o statistica, orfana di fonti condivise e ostaggio di criteri mobili ma “autorevoli”.

Immersi in un mondo di segni e simboli con sempre meno tempo per decodificare il senso profondo dei messaggi cui siamo sottoposti, non c’è scampo. Credere o morire; o lasciarsi persuadere. Così anche la famiglia, la scuola, le chiese, le sette e tutte le strutture di socializzazione e di apprendimento che ti dicono ogni giorno cosa fare, cosa pensare, dove andare, bombardano la gracile struttura cognitiva delle masse atomizzate usando i cannoni della persuasione.
E la persuasione può essere qualificata come l’intento di ottenere, modificare o smettere un comportamento attraverso il ragionamento capzioso o gli appelli emotivi e induce “gli altri” a fare ciò che non farebbero di loro spontanea iniziativa, modificando lo stato mentale del ricevente grazie all’utilizzo sapiente di tecniche che elicitano risposte automatiche innervate nella struttura profonda della coscienza, meccanismi comportamentali di azione e reazione adatti a polli allevati in batteria.

Persuasione e potere
Riconoscere la comunicazione persuasiva come elemento centrale del controllo del comportamento vuol dire riconoscere che dove c’è comunicazione, produzione di sapere e discorso, lì c’è potere. Lì dove c’è il potere c’è qualcuno che lo usa. Addirittura si potrebbe dire che la forma stessa della comunicazione prevalente è diventata una prassi di dominio perché in essa si cristallizzano le strutture di potere.

Un potere nomadico, che non risiede in strutture stabili e definite, che non è un semplice fatto, una struttura che si conserva o viene annientata, ma un sistema di relazioni, necessario, inevitabile e onnipresente, controlla l’ordine del discorso e stabilisce di volta in volta chi ha diritto di parola e chi no, chi determina l’agenda setting – ciò di cui si parla e richiede il formarsi di un’opinione – e che mette sul trono chi “massaggia il messaggio”, il consigliere del principe. Ma riconoscere l’esistenza di un potere che non ha confini precisi e che agisce sul terreno fluttuante del sapere, degli atteggiamenti, della sessualità, delle tecniche, dell’informazione, della comunicazione, del ragionamento umano è l’unico modo per difendersi dal potere stesso.

Non si tratta infatti solo di un potere che manipola le informazioni, censura, esclude e sbarra il libero scambio di saperi, o meglio, non fa solo quello; per capire fino in fondo il potere, bisogna capire innanzitutto gli effetti positivi che esso riesce ad avere sugli individui a livello del desiderio e del sapere. “Il potere, lungi dall’impedire il sapere, lo produce” sostiene Foucault nella Microfisica del potere (1970).
Per la produzione controllata del sapere, il potere si è servito nel corso della storia di tutte le tecnologie di comunicazione che l’uomo ha di volta in volta inventato, sottraendole a un loro libero uso da parte delle masse e riducendoli a meri strumenti di affermazione dell’ordine costituito.

Stampa, radio e TV, Internet, di volta in volta salutati come strumento di dialogo e partecipazione, nati per emancipare le masse dal desiderio frustrato di sapere e conoscenza, per consentire ciò che prima era impossibile o impensabile, rendere il mondo un villaggio globale, aprendo una nuova era di benessere e democrazia si sono risolti nel loro contrario: una “polizia discorsiva” che sorveglia una società disillusa e disciplinata, dove il controllo del comportamento attraverso il linguaggio è il prerequisito della perpetuazione delle strutture di potere.

Uno dei pilastri della società disciplinare è, secondo Michel Foucalt, l’ordine del discorso, ordine che stabilisce, tra le altre cose, chi ha diritto di parola e chi no in un dato contesto, e che riflette i modi dell’inclusione o dell’esclusione sociale stabilendo i criteri di appartenenza attraverso cui i gruppi sociali definiscono se stessi. Sempre seguendo Foucault, l’ordine del discorso è un processo che si autoperpetua attraverso l’interiorizzazione di norme relazionali e regole sociali apprese nei luoghi della socializzazione primaria – casa scuola, famiglia, oratorio – e che, perfezionati sul luogo di lavoro, nei circuiti del consumo e nelle istituzioni totali, sfociano nel conformismo, nell’autodisciplina e nel controllo reciproco.

Sovvertire l’ordine del discorso è alla base dell’idea del rovesciamento della “grammatica culturale” praticata dai gruppi di autodifesa intellettuale del passato e del presente. Invalidare le strategie di produzione del consenso attuate dal potere, prefigurando una strategia delle tattiche che possa diventare patrimonio collettivo di resistenza culturale, è il primo obiettivo della “comunicazione-guerriglia”. La “comunicazione-guerriglia” usa le tecniche del detournment semiotico – l’affermazione sovversiva, lo sniping, il nome multiplo, il fake, il camouflage, il plagio e il collage – ma opera sulla base di due principi psicologici, lo straniamento e la sovraidentificazione.

Lo straniamento procede attraverso l’appropriazione di forme, idee e concetti preesistenti modificandoli quel tanto che basta per svelarne la seconda natura e innescare un processo di riflessione critica sulla percezione delle cose. E’ il caso del Billboard Liberation Front che ha creato capolavori urbani intervenendo sulle pubblicità murali, dove “Obsession for Men” di Calvin Klein diventa “Recession For Man” o di quelli di Adbusters che hanno ridisegnato JO Camel, il vanaglorioso cammello testimonial delle omonime sigarette, in “Jo Chemio” un cammello fumatore nello scenario di un centro oncologico. E’ la stessa filosofia di quei buontemponi che hanno dipinto un naso da pagliaccio sui manifesti di Berlusconi.

La sovraidentificazione sposa invece la logica dominante di una relazione comunicativa per rimarcare valori e finalità implicite e nascoste del discorso. È il caso dell’assemblea operaia in cui contestatori impeccabili nella loro mise da finti e ricchi manager applaudono insistentemente il sindacalista che cerca di convincere le perplesse tute blu della necessità dell’intesa con la direzione. Lo straniamento è assicurato, se gli operai vedono i padroni d’accordo col sindacalista.
Un metodo per scomporre i meccanismi di costruzione mediatica della realtà è quello di inventare notizie false al fine di creare eventi veri. Allen Ginsberg durante un’azione di contestazione della guerra del Vietnam in un sobborgo di New York entra in un supermercato e urla che la guerra è finita. I poliziotti impegnati a disperdere la manifestazione solidarizzano con i manifestanti; ma l’invenzione ha anche altre modi.

All’interno di una realtà sociale incentrata sulla comunicazione, è solo la dissezione dell’ordine della comunicazione, che può rompere l’unità di spazio-tempo-azione della grammatica culturale, ricordarci che ogni informazione è al contempo deformazione e che i suoi effetti sono una variabile dipendente del soggetto che la interpreta in un contesto sociale. E quando si rompono le regole della comunicazione cambia la percezione dei suoi contenuti.

Questo libro, analizzando la deriva dei media, le frottole scientifiche, le trappole della matematica, le illusioni della percezione attraverso l’analisi dei linguaggi e dei modelli di pensiero, opera una salutare decostruzione dell’ordine del discorso e ci aiuta a mettere in dubbio una comunicazione che è soprattutto persuasione offrendoci di riacquistare gli indispensabili strumenti del pensiero critico.
Ecco un buon motivo per leggerlo.