Di chi è la politica?

Arturo Di Corinto

Ma di chi è la politica? Facile rispondere che la politica è di chi ha i soldi per farla. E allora lasciamola perdere. Noi non ne abbiamo abbastanza. La politica è di chi la sa fare? E allora dobbiamo ammettere che non siamo più bravi come una volta a farla. Ma se la politica è di chi ha idee e principi solidi e li sa comunicare forse la Sinistra ancora un ruolo da giocare. Le idee ce le abbiamo, i principi pure, dobbiamo imparare a comunicarli.
E’ vero, la sinistra è stata cieca di fronte ai nodi cruciali della modernità e dobbiamo ammettere che non ha saputo fare dell’analisi e del contrasto alle grandi emergenze globali – e alla differenti forme di insicurezza che generavano – la leva di una nuova politica e di un nuovo consenso. Appare ancora incredibile che in un momento di crisi profonda del capitalismo sregolato che si è imposto negli ultimi anni, noi che avevamo da tempo denunciato gli effetti perversi della globalizzazione, la catastrofe ecologica e demografica, il fondamentalismo religioso, il fattore etnico in politica, l’immigrazione di massa, la finanziarizzazione dell’economia e la rivoluzione digitale, ci troviamo impreparati a offrire un ripensamento profondo di quel modello. E dire che da sinistra sono stati prima elaborati concetti come, identità e territorio, rischio e incertezza, comunità e moltitudine. Concetti chiave per capire l’evoluzione di una società globale consumo-centrica e mediatica. L’errore è stato non riconoscere il valore di quegli strumenti concettuali che pensatori come Richard Sennet, Ulrich Bech, Slavoji Siszek, ma anche i nostrani Bonomi, Berardi, Simone, Ilardi, Virno, Formenti, ci offrivano e ora sembriamo non essere attrezzati a pensare la contemporaneità. Poiché uno dei nostri problemi è proprio l’incapacità di sintonizzarci col nuovo dovremmo adeguare la nostra analisi della società e delle neoclassi.
Ma non è solo per questo che la sinistra è in difficoltà. La neodestra politica è giovane e trendy. Noi siamo vecchi e rancorosi, “penitenziali”. Stare a sinistra significa troppo spesso essere consapevoli e politicamente corretti, fare sacrifici e rinunce, essere incapaci di abitare i luoghi della socialità anche virtuale. Per molti significa ancora (!) farsi perdonare gli errori del passato. Intanto non siamo capaci di affrontare il mostro, il Leviatano, la neodestra dal volto sorridente.
Per riaffermare il ruolo e il posto che compete a un pensiero di sinistra, che ancora oggi vuol dire libertà, emancipazione, diritti, bisognerebbe ripartire dalla quotidianità e concentrarsi sui problemi concreti delle persone e coniugarli con gli ideali di democrazia che la sinistra ha sempre rappresentato chiarendo che questi ideali hanno un rapporto diretto con la vita concreta. Come se non bastasse, l’incompetenza di politici e amministratori ci ha obbligato a occuparci di gestione dell’esistente senza avere una visione, un’idea di società adeguata alle sfide dei tempi. Ci siamo attardati sulla difesa e l’affermazione di contenuti palesemente minoritari e abbiamo perso di vista il grande tema: la precarietà dell’esistenza che ha sconvolto la vita di milioni di persone. Una malintesa tradizione del collettivo ci ha impedito di valorizzare l’individuo, gli individui; la dipendenza dalle burocrazie clientelari di valorizzare il merito, i privilegi piccolo borghesi di capire chi stava peggio, i personalismi di sfruttare la forza dell’unità.
Come si ribalta questa situazione? Con un pensiero nuovo. Vygotskij diceva che quando il concetto è pronto anche il linguaggio è pronto. Per elaborare nuovi concetti dobbiamo re imparare a comunicare. Con una precisazione: la comunicazione non è informazione né propaganda, ma costruzione collettiva di significati. La comunicazione, che è marketing, spettacolo, pubblicità, comparto industriale e merceologico, “mercato”, è il modo prevalente della produzione di ricchezza nelle società ricche e per questo riguarda il lavoro, i diritti, il desiderio, l’immaginario, i valori, la scelta e l’autonomia delle persone.
Riflettere sull’importanza della comunicazione quindi non è solo parlare di tv e di consigli di amministrazione. Significa parlare di accesso alla cultura, al sapere alle professioni, significa parlare di mercato del lavoro e di precariato, delle nuove forme della cittadinanza e della relazione sociale. Perciò parlare di comunicazione significa parlare di copyleft, di infrastrutture della conoscenza, di software libero, di brevetti, di privacy, di formazione e ricerca, significa parlare di welfare della creatività.
Investire sulla comunicazione dovrebbe essere una nuova parola d’ordine: dotarsi degli strumenti di comunicazione necessari, senza costruire cattedrali nel deserto, ma portando il proprio messaggio nei luoghi già abitati, adeguandolo alle forme e agli stili della comunicazione contemporanea, secondo una strategia di comunicazione multicanale, scientifica, da Internet alla Tv e ritorno. Significa immaginare, con un pizzico di professionalità, strumenti aperti, orizzontali, attraverso cui ognuno si possa esprimere, dare un contributo, sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Investire sulla comunicazione significa sviluppare una rinnovata attenzione ai comunicatori, il cui lavoro fondamentale di intermediari, in un mondo dove se non comunichi non esisti, è un lavoro caratterizzato da velocità e precarietà, e rappresenta la cifra paradigmatica dello sfruttamento del lavoro cognitivo tout court della società della conoscenza. Già solo questa rinnovata attenzione al mondo della comunicazione potrebbe essere uno dei rimedi alla disaffezione di chi potrebbe efficacemente veicolare le nostre idee ma non si sente né ascoltato né rappresentato a sinistra.

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