«Il 5G causa il Coronavirus», ma è una bufala
Hacker’s dictionary. Il Poynter Institute ha messo insieme una task force di esperti per combattere le fake news sul Covid-19. Ma è compito di tutti impedirne la diffusione
di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 9 Aprile 2020
«Il 5G causa il Coronavirus». «Bere acqua calda può prevenire l’infezione da COVID-19». «Per tutta l’emergenza il governo registrerà tutti i messaggi di Facebook e WhatsApp».
Create e diffuse sui social queste bufale sono diventate virali sia attraverso la posta elettronica sia con le catene di Sant’Antonio via chat, e per questo il Poynter Institute ha deciso di unire le forze di circa 100 fact checkers provenienti da 45 paesi diversi per smontarle una ad una.
È così che scopriamo che una clip di 20 secondi su Facebook che mostra una donna pakistana in burqa con difficoltà respiratorie proviene dall’India e che non ha il coronavirus. Scopriamo anche non essere vero che «Moglie e figlia del presidente spagnolo sono fuggite a Cuenca per la quarantena». Pure la notizia originata su WhatsApp e diventata virale in Spagna secondo cui «Papa Francesco ha chiesto ai credenti di mettere un fazzoletto bianco sulla porta per scongiurare la peste» è falsa. E poi arriviamo alla bufala più grossa e pericolosa: «Donald Trump annuncia la commercializzazione di un vaccino». Non esiste ancora, ahinoi, un vaccino per il Coronavirus.
Vista la loro diffusione, se ne contano centinaia ogni giorno, è bene ricordare che le fake news non sono frutto di un errore giornalistico, ma sono pensate per manipolare le persone, delegittimare le istituzioni e inquinare il dibattito pubblico. A differenza della satira, della critica, delle opinioni personali, le fake news sono costruite per ingannarci con il racconto di fatti plausibili ma costruiti sulla base di verità parziali ed eventi non verificabili.
Nonostante il loro successo però si possono riconoscere quasi subito. Le fake news che compaiono spesso sui siti acchiappa-click hanno in genere titoli «strillati», costruiti per causare rabbia e indignazione. Chi le scrive punta alla reazione emotiva di chi legge, guarda, ascolta.
Perciò se vediamo una storia che sembra incredibile o scioccante, meglio controllare se altre fonti accreditate la riportano verificando anche il nome dell’autore. Quando i titoli sono gridati, scritti tutti in maiuscolo, col punto esclamativo, diffidate sempre. E se il fatto narrato è davvero accaduto, verificatelo con una veloce ricerca online. A volte si spacciano per nuove le notizie vecchie che, in un contesto diverso, assumono tutto un altro significato. Spesso ci si sofferma solo sul titolo-bomba, che si condivide immediatamente. Una volta letto si capisce che il testo non ha nulla a che fare con il titolo o che la storia è chiaramente falsa e non esistono prove per sostenerla. Anche le foto ritoccate e i meme sono usati per diffondere bufale. E poiché i meme hanno il vantaggio di sintetizzare un universo di significati e di credenze in una sola immagine e uno slogan sovraimpresso, si diffondono anche più facilmente. Ci vuole il buon senso.
Il dramma è che la maggior parte delle persone non è capace di riconoscere le notizie vere da quelle false proprio perché le bufale sono notizie verosimili, talvolta romanzate, e condite da particolari curiosi. Ed è facile credere alle notizie false quando confermano i nostri pregiudizi, consentono di spiegare fatti complessi senza sforzo, giustificano opinioni precedenti o producono un vantaggio sociale. Così, mentre di fronte al virus cerchiamo di proteggerci e di non contagiare gli altri, con la fake news facciamo esattamente il contrario.
Anche la notizia degli hacker che hanno attaccato il sito dell’Inps potrebbe essere una bufala, diffusa però da tv, radio e giornali. In questo caso ce lo dirà il Garante della Privacy.