La prima vittima della guerra è la verità

Lo pseudo-scoop del Tg1 e il senso critico dello spettatore
AprileOnLine.Info n.62 del 18/06/2004
[Arturo Di Corinto]

Le televisioni continuano a riproporci le immagini della liberazione degli ostaggi italiani ma queste, anzichè placare le polemiche politiche le accendono…

Secondo il deputato verde Paolo Cento le immagini trasmesse dal TG1 non chiariscono in alcun modo i punti oscuri sui tempi e i modi della liberazione degli ostaggi; per Battisti della Margherita confermerebbero il pagamento di un riscatto, data la libertà di azione in cui appaiono operare i salvatori; per Giulietti dei DS “sarebbe opportuno spiegare per quale ragione il filmato è stato tagliato e quali parti siano state omesse e per quale ragione”.
In realtà in molti ci siamo chiesti il perchè non siano stati subito diffusi i dettagli dell’operazione. Ci saremmo aspettati una grande enfasi sulla strategia, le armi, le forze impiegate per la liberazione come in genere succede nel caso di operazioni portate a termine con successo. Invece niente. Fino a ieri.
Non è facile dire il perché. O forse lo è fin troppo.
La prima vittima della guerra è la verità. Questo adagio è tanto più vero per una società, la nostra, che vive la guerra attraverso le immagini. “Fare la guerra” per noi che viviamo in una società mediatica, significa infatti guardare la televisione. E la televisione, per via del rapporto di convenienza che la lega gli apparati militari è la lente deformante attraverso cui passa la realtà degli accadimenti bellici. Esempio emblematico ne sono i giornalisti embedded che non rispondono più alle regole deontologiche o del network o del mercato, ma a quelle della propaganda militare e possono registrare e raccontare solo ciò che è loro consentito in base a precise regole di ingaggio pena l’allontamento dal teatro delle operazioni.
Questo perché l’effetto mediatico è spesso ciò a cui mira l’azione militare che punta alla testa del nemico per colpire l’opinione pubblica. Una strategia che ha un effetto peculiare: all’aumento dell’esposizione mediatica del fenomeno bellico corrisponde da parte della platea televisiva una ridotta capacità di stabilire una presa diretta sulla realtà e quindi di decidere e di agire. La conquista dell’ambiente simbolico operato dalla televisione produce irresponsabilità nei confronti dell’agire altrui.
La televisione insomma occulta la guerra e mira a manipolare l’opinione pubblica.
Ma la vittoria dell’apparato mediatico militare sulla capacità di giudizio dell’opinone pubblica dipende dalla collaborazione fra la censura militare e le modalità della rappresentazione televisiva.
E questo accade secondo due modalità distinte: la censura negativa – che elimina dallo spettacolo televisivo il secondo elemento del binomio guerra-morte, cioè i corpi degli uccisi, trasformando la guerra in un evento asettico, sterilizzato per la famiglia riunita intorno al focolare televisivo – e con la censura produttiva, il dispiegamento delle immagini della tecnologia militare come prova della potenza produttiva del complesso militare-industriale, e con la spettacolarizzazione delle operazioni di guerra che diventano un evento mediatico come un altro.
Questo ultimo aspetto è esattamente quello che è stato esaltato dalla trasmissione da parte del TG1 del video-scoop sulla liberazione dei prigionieri italiani e di quello polacco.
Per chi non l’avesse visto vale la pena ricordare che in collegamento da Baghdad, Monica Maggioni, giornalista inviata del TG1, già “embedded” al seguito delle truppe alleate, riesce a presentare, guarda un po’, nell’ora di massimo ascolto televisivo per il telegiornale della rete pubblica ammiraglia, un documento inedito in bianco e nero di trenta secondi.
Nel documento si vedono dei militari che saltano giù dall’elicottero senza aspettare l’atterragio, due militari che corrono verso una porta e poi uno stacco. Si vede una stanza dove sono distesi a terra degli uomini, gli ostaggi, e non si vedono i carcerieri. Si vedono le emozioni sul volto dei rapiti, il primo piano del polacco cui un militare taglia le manette con delle cesoie e un italiano che solleva un dito nel segno di Ok. Finito. La cronista dirà che il video è stato consegnato da fonti ufficiali – senza dire quali – che hanno montato e trattato le immagini: la spiegazione delle righe bianche e nere del video è che sarebbero “tipiche di quando si lavora un audiovisivo per tutelare l’identità delle forze speciali e degli ostaggi”.
Di fronte a questa operazione mediatica si possono fare almento tre considerazioni.
a) il video, emendato da indizi geo-topografici – non mostra se la liberazione è avvenuta a Ramadi, Baghdad o altrove. Potrebbe essere stato girato in qualsiasi luogo e non fornisce quindi elementi utili alla comprensione della dinamica politica del sequestro e della liberazione;
b) il video non mostra la catena causale dell’azione, quindi non sappiamo se la liberazione è stato frutto di un blitz militare successivo a un’operazione di intelligence, dimostra però un intervento di tipo militare e mette in primo piano il ruolo avuto dalle forze speciali;
c) il video non mostra i carcerieri e quindi non si capisce se la liberazione è la conclusione di una trattativa basata su di un accordo o su una azione di forza, ma ottiene l’effetto di azzerare l’ipotesi di un accordo. Per quale altro motivo si renderebbe necessaria l’irruzione armata?
Il diessino Pietro Folena lo commenta così: “non c’e’ un elemento che sia uno che possa confermare che le cose siano andate davvero come dicono le immagini”.
Quel video non occulta la realtà, ma ne crea una nuova chiedendo allo spettatore di ricostruire la catena dell’azione in base a notizie e opinioni pregresse, e sulla base di altri due elementi: la presunta obiettività della fonte, il TG1, e la cronaca, che, spiegando le immagini, prima, durante e dopo la visione, fornisce la cornice per interpretarle.
La prima vittima della guerra mediatica è la verità, la seconda potrebbe essere il nostro senso critico.