Perchè abbiamo bisogno dei “traditori” come Manning
Arturo Di Corinto
per Articolo 21 del 22 agosto 2013
Trentacinque anni sono tanti. In trentacinque anni succede di tutto. In trentacinque anni si può metter su famiglia, vedere i figli crescere, cambiare sesso, lavoro e residenza, invecchiare e morire in santa pace. Bradley Manning non potrà farlo. È stato condannato da una corte marziale a passare trentacinque anni in prigione per aver diffuso notizie riservate sulla guerra, anzi su due, quella irachena e quella afgana, e su di un terza, la guerra diplomatica che gli USA da duecento anni fanno a tutti, pure agli alleati. Bradley Manning è la talpa di Wikileaks, l’organizzazione di volontari creata da Julian Assange che grazie a Manning ha potuto svelare orrori e assassinii dei militari USA in quella guerra al terrore di cui non sono mai state trovate le smoking guns e per la quale non hanno mai saputo individuare una efficace exit strategy.
L’opinione pubblica mondiale è divisa sulla sentenza. Gli alfieri della trasparenza, dell’open government e della libertà d’informazione considerano Manning un eroe, altri lo considerano una spia e un traditore “connivente col nemico”, per aver messo in pericolo il proprio paese e la vita dei suoi concittadini, in patria e all’estero. Eppure il giudice militare Denise Linde non lo ha condannato alla pena capitale e neppure all’ergastolo proprio perchè è stato impossibile quantificare “l’entità del danno” che avrebbe arrecato, e per aver dimostrato, attraverso il suo avvocato, David Coombs, di non avere aiutato il nemico più odioso, Al Qaeda. Linde non ha accolto la richiesta del procuratore a 60 anni di carcere e adesso c’è chi si spera che con il riconteggio della pena, la buona condotta e i permessi speciali, il soldato semplice Manning possa uscire di prigione tra dieci anni e riprendersi la sua vita.
Si può pensare tuttavia che la decisione del giudice sia stata influenzata anche da altri fattori: l’insofferenza globale dei cittadini verso le menzogne dei propri governi, il fastidio verso una società della sorveglianza generalizzata cui anche Facebook, Google e le autorità di garanzia contribuiscono, e l’inutilità del controllo diffuso a impedire stragi e attentati: alle Torri gemelle, alla maratona di Boston, alla metropolitana di Londra come al consolato Usa di Bengasi.
Last but not least, la corte potrebbe aver considerato la crescente simpatia verso gli eroi della trasparenza che a più riprese hanno denunciato il grande fratello globale e le asimmetrie del potere digitale: come Assange, come Swartz, come Snowden, come Anonymous. Se fosse così, sarebbe l’ennesima dimostrazione che il paese di Benjamin Franklin, l’uomo che disse “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza.” – con tutte le sue contraddizioni, è ancora una grande democrazia.
Eppure sulla scena resta una democrazia ferita, la democrazia dell’informazione. La distruzione dai computer del Guardian dei file relativi al datagate denunciato da Snowden e il fatto che il compagno di Glenn Greenwald, autore dello scoop sul sistema Prism, sia stato fermato e torchiato all’aeroporto di Heatrow – dove gli hanno confiscato pc, telefoni e memorie digitali -, proietta una luce sinistra sul futuro dell’informazione e sulla capacità del giornalismo di prendere una posizione netta e definitiva sulla tutela del diritto/dovere all’informazione. Un diritto che tutti siamo chiamati a difendere.