L’espresso: La corruzione si combatte in Rete

La corruzione si combatte in Rete
di Arturo Di Corinto per L’Espresso del 29 ottobre 2012


Gli anglosassoni lo chiamano whistleblowing: è la denuncia di comportamenti illeciti in un’azienda o un’istituzione. In Italia non attecchisce. Ma ora sul web è nato Hermes, un centro studi che studia i modi per incentivare le segnalazioni dei cittadini. Ad esempio sull’evasione fiscale

Penati, Belsito, Lusi, Fiorito: ogni nome uno scandalo per mancanza di trasparenza e di controllo pubblico. E’ curioso che oggi che si parla tanto di lotta alla corruzione, di accountability e open data, in Italia si parli così poco di whistleblowing e cioè del modo con cui singoli cittadini possono contribuire a denunciare le trame della burocrazia e le truffe del potere. I motivi possono essere molti: una scarsa cultura della trasparenza che invece caratterizza le democrazie anglosassoni, la poca familiarità con le tecnologie di privacy oppure la paura di conseguenze indesiderate.

Whistleblowing è l’atto di suonare un fischietto. Soffiare un fischietto serve ad attirare l’attenzione. Non è un caso che il termine nasca per indicare i “bobbies”, i poliziotti inglesi disarmati che così allertavano colleghi e cittadini contro il crimine. Il termine però oggi indica colui che denuncia i suoi colleghi o superiori per un comportamento illecito all’interno di un’azienda, di un partito, di un governo, spesso col favore dell’anonimato. Ma non per forza. Il whistleblower può essere anche chi denuncia pubblicamente un’ingiustizia, una corruttela, una malversazione, contribuendo così al processo di trasparenza su cui sono fondate le nostre democrazie e favorendo il ruolo di controllo della stampa nei confronti dell’operato di imprese e governi. Come ha fatto Julian Assange. Il più famoso whistleblower al mondo è Daniel Ellsberg, che rivelò al mondo i Pentagon papers, i documenti segreti del governo americano sulla guerra del Vietnam.

La pratica del whistleblowing in Italia è però ritenuta politicamente scomoda e di difficile attuazione perchè, come ha recentemento sostenuto Eugenio Scalfari, non c’è una consapevolezza diffusa dell’interesse pubblico e perché c’è una scarsa cultura dei diritti (come da tempo denuncia Stefano Rodotà). Cambierà questa situazione con la diffusione della rete e gli open data? Chissà.

Intanto per rimediare a questa disattenzione un gruppo di programmatori italiani ha deciso di sviluppare, in collaborazione col Tor Project e USAID, una nuova iniziativa per creare consapevolezza del tema e affermare il diritto alla trasparenza attraverso la tecnologia: si chiama Hermes, Centro studi sulla Trasparenza e i diritti Umani in rete.

Il centro è una realtà non profit parzialmente autofinanziata per gestire i progetti di trasparenza che hacker, avvocati e attivisti italiani hanno sviluppato negli ultimi anni. Mettendoci la faccia, questi cavalieri della trasparenza creano Freedom-Enabling Technologies, unendo alla competenza tecnologica la capacità organizzativa e le risorse di Fondazione Ahref, Binario Etico, USAID Serbia, TorServers.net, e collaborando con realtà come Transparency International Italia e TorProject che ne finanziano le attività.

Per ora i progetti avviati sono GlobaLeaks.org, un sistema OpenSource di WhistleBlowing, con una fortissima componente di anonimato; Tor2Web.org, sistema di pubblicazione anonimo di contenuti presenti su Tor; LeakDirectory.org: elenco di risorse web, e approfondimenti sul tema del Whistleblowing. I suoi programmatori inoltre collaborano col Big Brother Awards che in Italia ogni anno premia coloro che più spudoratamente violano la privacy degli italiani.

Gli ambiti di applicazione di questi progetti sono innumerevoli. Una piattaforma di tax whisteblowing ad esempio potrebbe sviluppare la trasparenza contributiva aiutando i cittadini, grazie alla crittografia, ad inviare al fisco in maniera anonima, facile e veloce segnalazioni circostanziate sull’evasione fiscale di soggetti privati e pubblici sotto forma di documenti, registrazioni audio/video, dati geo-referenziati da smartphone.

Un’idea che da sola avrebbe un effetto deterrente in un paese dove la corruzione è il motivo principale dell’impoverimento economico e sociale.

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