Hackers nel mirino

ARTURO DI CORINTO
Il Manifesto – 16 Gennaio 2002

Sei giovani tra i 15 e i 23 anni accusati di aver attaccato, nei giorni del G8, numerosi siti web, tra cui quelli del Pentagono e di Claudio Baglioni. Per lasciare messaggi alle fidanzate. Rischiano l’accusa di terrorismo, grazie alle leggi varate dopo l’11 settembre

Sarebbero sei giovanissmi tra i 15 e i 23 anni gli hacker italiani che per il Gat (Gruppo anticrimine tecnologico) “avrebbero infestato” internet nei giorni del G8. I sei apparterrebbero al gruppo italiano “Hi-Tech Hate” (Odio ad alta tecnologia) e potrebbero essere proprio quei sei che hanno “lasciato appeso” sul sito Ansa della Regione Campania un messaggio antiglobalizzazione dedicato alle rispettive fidanzate: Simona, Linda, Laura, Danyela, Gloria. I “faboulos six ” allora si facevano chiamare B4dBoy, naDrol Rah’S, E-@ack, DauthiJackal, tux e Onslaught. Mostri di bravura loro o quelli che li hanno acchiappati? Nessuna delle due, forse. Se sono loro gli indagati, sono noti, conosciuti e plurintervistati. Difficile sarebbe stato non trovarli.
Ma che siano “geni del male” come dicono i soliti sensazionalisti, oppure “normali bravi ragazzi, ingegnosi, ben preparati”, rischiano grosso, se verranno provate le accuse contro di loro. E questo perché se hanno attaccato per davvero il Pentagono come riportato dalle agenzie di stampa, possono essere accusati di terrorismo (reato previsto dal Terrorism act), sequestrati in Italia, deportati in America e processati per direttissima come i talebani. Processi che nessuno fermerebbe, se è vero che per il Consiglio della comunità europea i colpevoli di reati informatici possono essere accusati di terrorismo se “così decide il governo competente”.
Secondo le agenzie gli hacker sarebbero accusati di avere attaccato siti in 62 paesi. Stando però a quello che sappiamo finora, gli attacchi si sarebbero concretizzati soltanto nello sfregio della homepage dei siti di aziende, governi e istituzioni, fra cui la Nasa, il Pentagono, i governi britannico, pachistano e altri. In Italia, invece, Senato, Sanità, Difesa, Regioni e Province, Camere di Commercio, Rai, Mediaset, Ansa, partiti, sindacati e providers. Ma anche il sito del cantante Claudio Baglioni, che con la globalizzazione c’entra poco o niente.
Tutto qui? La critica radicale allo status quo da parte degli hackers utilizza da sempre questa forma estrema di protesta. Il gruppo che fa capo alla storica rivista 2600, ad esempio, tiene un archivio decennale dei defacements alle home pages di importanti istituzioni accusate dagli hackers di essere fasciste, illiberali o corrotte (basta andare sul sito www.2600.org).
Siccome i defacements consistono nello stravolgimento delle homepage del sito web con l’immissione di contenuti irridenti e critici, a volte nonsense, e rappresentano una sorta di “attacchinaggio abusivo sui muri di Internet” – il defacciamento dei siti è illegale, ma non in tutti i paesi – è difficile considerarli alla stregua di un’azione terroristica o di guerra perché non provocano danni permanenti e non sono rivolti al furto di informazioni o alla distruzione di materiali riservati, quanto piuttosto a occupare temporaneamente uno spazio d’espressione. E non somigliano neppure da lontano ai D-DoS, i Distributed denial of service che l’anno scorso fecero tremare i siti di commercio elettronico come Amazon.com ed E-Bay.com. Le interruzioni dei servizi internet causati dai DoS, infatti, producono un blocco totale delle attività e talvolta compromettono le infrastrutture di comunicazione bersagliate, causando danni per milioni di dollari. I danni fatti dai defacers si riparano in pochi minuti. Basta accorgersene.
Se si visitano i siti degli hackers/defacers, come www.alldas.de si capisce che si considerano “antagonisti oppressi del discorso pubblico egemone”, e che gli stessi loro simpatizzanti paragonano il defacciamento dei siti web al graffitismo della cultura hip-hop, a metà tra una forma d’arte digitale e una filosofia di resistenza contro l’internet delle multinazionali e dei governi. Basta leggere questa testimonianza dalla mailing list cyber-rights@ecn.org per capirlo:”chi fa defacing non è un vandalo se non distrugge il sistema ma si limita a usare il web come uno spazio dove poter esprimersi, anche con un atto forte come il defacing (mi piace l’idea dell’attakkinaggio nel Web). L’azienda o le aziende subiscono un danno? E chi se ne frega, quanti danni fanno le aziende, nel nome del profitto?

Gat, antihacker in divisa

Il Gat, Gruppo anticrimine tecnologico (specialità interna alla Guardia di finanza), comandato dal colonnello Umberto Rapetto, esperto di crimini informatici, è costituito da trenta militari, di cui quattro ufficiali, con competenze tecnologiche, giuridiche ed economiche, e il loro lavoro consiste nella prevenzione e neutralizzazione dei crimini legati alle tecnologie elettroniche e digitali. Si occupano quindi di tutti i reati collegati all’uso della tecnologia e non soltanto di quelli informatici. In particolare, il Gat si occupa di individuare applicazioni tecnologiche utili all’attività di investigazione e di intelligence, oltre che a svolgere compiti di polizia tributaria telematica. Intervengono in seguito a querela di parte e poi passano la palla alla polizia telematica. Non c’è traccia di loro sul sito della Guardia di finanza, ma hanno un indirizzo di posta elettronica (gat@gdf.it) e un numero telefonico (06/22938).

(a.d.c.)