La banana republic europea dei brevetti software

Un’altra proposta firmata da Bolkestein sta arrivando al voto dopo aver eluso i suggerimenti del parlamento

ARTURO DI CORINTO
il manifesto – 26 Giugno 2005

Dopo un lungo e tortuoso percorso, la proposta di normativa europea sui brevetti software sarà votata al Parlamento europeo il sei luglio, in seconda lettura. Eluse le mofidiche apportate dal parlamento europeo, rigettati gli emendamenti proposti da Michel Rocard in Commissione giuridica, la direttiva, che si trascina ormai da 4 anni – da quando Frits Bolkestein, nell’esecutivo diretto da Prodi, ha proposto al parlamento di brevettare le invenzioni realizzate al calcolatore – è ormai in dirittura d’arrivo.

Pensata per omogeneizzare la legislazione degli stati membri europei, difesa per favorire il commercio interno e con gli Usa, appoggiata dai grandi lobbisti del software, ha scontato l’opposizione di parlamentari, province, regioni, associazioni di categoria, Pmi e singoli programmatori uniti nel rivendicare l’inutilità di aggiungere a copyright, marchio e segreto industriale anche la tutela giuridica del brevetto sul software: sarebbe un freno all’innovazione e alla ricerca europea introducendo una ulteriore barriera ai mercati aperti dalla tecnologia e metterebbe in discussione la creatività e la libertà d’espressione di chi usa e produce software. Al voto del sei luglio l’attenzione sarà ancora concentrata in particolare sul significato da attribuire alla definizione di «computer implemented inventions». Una definizione assolutamente (e volutamente) ambigua. Gli industriali dicono che i brevetti software favoriscono gli investimenti in ricerca e sviluppo, mentre è noto che a causa dei continui contenziosi quei fondi vengono spostati verso le spese legali; e come se il problema vero non fosse piuttosto la scarsità di risorse destinate alla ricerca, lo sfascio di quella pubblica e la fuga dei cervelli; dicono che favoriscono l’innovazione quando studi estesi dimostrano che questo vale solo per pochi brevetti e soprattutto non vale per il software, dove i miglioramenti sono incrementali e, se radicali, provengono dalla periferia della cooperazione diffusa – com’è accaduto col software libero; dicono che tutelano le Pmi anche se esse sostengono l’opposto; dicono che sono necessari a difendere la loro proprietà intellettuale, come se il copyright sul software non fosse stato sufficiente a sviluppare mercati forti e arricchire imprese come la Microsoft.

Durante il recente convegno «Il futuro del software», la Confindustria ha preteso addirittura di sostenere che la direttiva non riguarda il software come tale. Ma che il primo problema stia proprio lì si capisce dagli emendamenti della sinistra europea concentrati sul significato di implemented, che per Rocard andava tradotto con «controllate» anziché «realizzate», col rischio di coprire ogni dispositivo elettronico che per comportarsi in maniera «intelligente» non può fare a meno di un calcolatore e del software senza il quale rimane un pezzo di silicio o di ferraglia. E questo per la felicità non tanto dei produttori di «software puro» – che non è brevettabile per la convenzione di Berna del 1973 – ma per il grande business del software embedded, quello dei frigoriferi intelligenti, dei telefonini Umts o dei sistemi di guida satelittare. Un regalone per gli elettronici europei come, Nokia, Alcatel, etc.

L’altra variabile di cui la proposta non tiene conto è l’arbitrarietà del comportamento degli uffici brevetti. Lo European patent office ha infatti concesso migliaia di brevetti software che dal giorno alla notte potrebbero cambiare lo scenario dell’uso di Internet (dallo streaming video all’uso degli Mp3 e delle «thumbnail») e uccidere nella culla diverse procedure di e-government, come il voto elettronico. Perciò anche se non si volesse considerare la situazione per cui i tre quarti dei brevetti sul software appartengono a imprese non europee, in evidente svantaggio competitivo, il problema è proprio la legittimità dei brevetti sulle invenzioni legate al software. Affinché un dispositivo controllato da software possa essere brevettato in quanto invenzione deve avere carattere di novità e di industrializzabilità, criteri scarsamente valutati dagli uffici brevetti europei e statunitensi che, sommersi di richieste, decidono sbrigativamente cosa va brevettato e cosa no, nel timore di vedere i loro introiti ridotti e discussa la loro funzione e perciò tendono a brevettare tutto: non solo il corpo umano, come ha chiesto Microsoft, ma anche una «tecnica» per far dondolare l’altalena. Che uno dei nodi sia la procedura di riconoscimento legale dei brevetti software dovrebbe dimostrarlo il caso americano. In un articolo di Science del 17 giugno, viene descritta la proposta Usa di riforma del regime brevettuale resasi necessaria dalla paralisi degli uffici brevetti e delle corti di giustizia, causata da un altissimo numero di richieste e di cause giudiziarie. Era la stessa industria hi-tech che ne lamentava l’estensività, per la costante minaccia di essere citata in giudizio per singoli pezzi di codice e perciò oggi chiede al Congresso di rendere più difficile istruire i singoli contenziosi.

Il primo corollario di questa vicenda è allora il seguente. Prima di fare leggi sulle emissioni inquinanti abbiamo dovuto subire i danni dell’industrialismo. Gli americani oggi vogliono limitare il regime brevettuale perché ne subiscono le distorsioni prima di altri. Quanto ci vorrà prima che noi europei si faccia marcia indietro di fronte all’ingovernabilità del sistema che ci prepariamo ad avallare?

Il secondo riguarda la miopia politica di chi non ha tenuto conto delle obiezioni alla direttiva del PE, dei nuovi stati membri e dei cittadini dell’Unione. Incoraggiando l’opinione diffusa di una Commissione eterodiretta dalle lobby multinazionali sarà a lungo impraticabile ogni ipotesi di Carta costituzionale condivisa dai cittadini.