Brevetti showdown. La guerra del software europeo


Oggi a Strasburgo si vota la direttiva comunitaria che prevede di imporre anche la tutela legale del brevetto al software finora protetto da copyright, marchio e segreto industriale

Arturo Di Corinto
Liberazione 06-Luglio-2005

Oggi si consuma a Strasburgo l’ultimo atto della guerra sui brevetti software in Europa. Fallito il tentativo di sottrarre a un ampio dibattito pubblico la questione, spacciandola per una cosa da specialisti, la sinistra europea, supportata da università, enti e associazioni, proverà per l’ultima volta a bloccare o modificare la controversa direttiva comunitaria che prevede di apporre anche la tutela legale del brevetto al software finora protetto “con successo” da copyright, marchio e segreto industriale.

Col rischio di invalidare la stessa strategia di Lisbona che voleva fare dell’Europa la società della conoscenza più vasta al mondo, se la direttiva sulle “computer implemented inventions”, non verrà rigettata, o se passasse senza emendamenti il ko sarebbe duplice: del Parlamento europeo, le cui precedenti modifiche sono state ignorate dalla Commissione con una forzatura procedurale e senza l’accordo di molti nuovi stati membri; delle imprese europe che ne chiedevano un cambiamento sostanziale e per questo hanno inondato di 2 milioni di lettere di protesta i computer del PE.

Ma andiamo con ordine. E’ un dato ormai acquisito che il software rappresenta l’ossatura del mondo digitale in cui siamo immersi, è l’oggetto di una fiorente industria dei servizi e l’elemento di mediazione di ogni forma avanzata di produzione e comunicazione. Si trova dovunque, persino nel tostapane.

Considerato come “literary work”, al pari di uno spartito musicale, di una poesia, di una sequenza cinematografica, è stato finora tutelato dal copyright che ha permesso di generare proventi diretti e indiretti per gli stati e le aziende titolari anche se con il risultato drammatico di creare dei monopoli di fatto su singoli prodotti, ma comunque permettendo la diffusione di piccole e medie imprese che fanno dei servizi sul software – rivendita, personalizzazione, manutenzione, formazione – l’oggetto del loro guadagno. Monopoli sfidati efficacemente negli ultimi anni solo dal software libero, quello basato su Linux, e su una interpretazione rivoluzionaria del copyright, il diritto d’autore su cui lucrano editori e distributori, trasformato in copyleft, il “permesso d’autore” che dà all’utilizzatore la libertà di usare il software per qualsiasi scopo e di copiarlo, modificarlo e redistribuirlo senza l’accusa di “pirateria digitale”.

Ma se il copyright tutela la forma espressiva di un’idea, il brevetto tutela il risultato dell’idea concretizzato in una funzionalità innovativa e industrializzabile e si configura come un diritto esclusivo allo sfruttamento di quel risultato, e non del modo in cui è stato ottenuto, e di cui il detentore del brevetto può impedire l’uso a terzi. Siccome il software è una sequenza di istruzioni che produce “sempre” un risultato, brevettare il software equivale a brevettare il metodo matematico con cui si ottiene quel risultato e quindi a esercitare una privativa sulle istruzioni numeriche necessarie a far funzionare un dispositivo elettrico, meccanico o digitale.

Ci hanno già provato Amazon con il singolo click e British Telecom con l’hyperlink per navigare il web. Ma a fronte di questi insuccessi sono pronti molti altri brevetti che se legalizzati potrebbero impedire o rendere costose alcune azioni quotidiane dell’interazione con Internet: vedere un filmato in tempo reale, ingrandire immagini, ascoltare musica compressa in Mp3.

Insieme a questi danni per gli utenti della rete la brevettazione del software metterebbe a rischio proprio lo sviluppo di un’industria europea indipendente dai fornitori d’oltreoceano e le ricadute economiche e scientifiche derivanti dalla digitalizzazione delle amministrazioni (l’e-government) e la ricerca nel campo dei nuovi materiali e della bioingegneria.

Ma se questi sono i rischi, perché votare un provvedimento di questo tipo? I motivi stanno nella guerra che i monopolisti conducono contro le piccole aziende, con buona pace di Frits Bolkestein – quello della fallita direttiva sui servizi – che ha proposto di brevettare il software per favorire la concorrenza fra le imprese del settore. Argomentazione ridicola perché le imprese che producono software sono perlopiù extracomunitarie e quelle europee campano sui servizi, e sarebbero messe fuori mercato dai brevetti, producendo un danno irrimediabile all’innovazione che sul digitale si basa, e agli artigiani del software che, impossibilitati a pagare lo sfruttamento dei brevetti sarebbero privati del loro mezzo di produzione principale, il software, e ridotti a cercare lavoro presso i soliti noti come antichi mezzadri.

Ma c’è un altro motivo per cui i lobbisti hanno scavato come talpe sotto le poltrone della commissione. In Occidente il lavoro cognitivo costa e certe aziende non ritengono conveniente sviluppare il software in proprio. Meglio essere titolari dei diritti di sfruttamento e farci lavorare qualcuno che costa meno, in India o in Cina, pagando i lavoratori meno di un decimo di quelli occidentali. Dal meccanismo brevettuale solo le grandi corporation traggono vantaggio. Chi si immagina una piccola softwarehouse che si permette di fare causa alla Microsoft di fronte a una presunta violazione del suo brevetto? Viceversa la Microsoft ha facile gioco ad acquistare brevetti da terzi e congelarli impedendo ad altri di sviluppare innovazioni utili che potrebbero mettere a repentaglio il suo monopolio.

Il brevetto sul software favorisce intrinsencamente le rendite di posizione creando una barriera all’ingresso agli incomer obbligandoli a trovare soluzioni nuove a problemi già risolti e contraddicendo la logica del digitale dove tutto si riusa e non si reinventa mai da zero. Il caso più eclatante è quello del kernel Linux, che violerebbe circa trecento brevetti. Ammesso che sia possibile scriverne daccapo il codice senza violare alcun brevetto, quanto tempo e quanti soldi ci vorrebbero? Oppure, chi mai si accollerebbe una ricerca costosa per poi scoprire che un certo procedimento è già stato brevettato? Chi sostiene che il brevetto incoraggi ricerca e competitività mente sapendo di mentire.