Peacereporter: Nativi digitali sul piede di guerra

logo peace reporter

Nativi digitali sul piede di guerra
per Peace Reporter di Marzo
Arturo Di Corinto

Google video, Youtube, Current tv; Vlog, videosharing, social broadcasting, e la comunicazione visuale non ha più confini. Tutti possono diventare filmaker e raggiungere coi loro film una platea mondiale. Flickr, Picasa, le foto non hanno più un solo autore, si copiano, si manipolano, si scambiano, si vendono e si comprano in formato digitale. Myspace, P2P networks, net labels: la musica diventa liquida, si prestano accordi, si copiano soundtrack, si remixano brani. Tutti musicisti. Facebook, siti e blog personali: rivolgendosi a un pubblico di sconosciuti ognuno presenta il collage personale della propria vita aggiungendo e togliendo pezzi delle vite degli altri con due colpi di clik. Siamo nell’era dei media personali. Siamo nell’era della creatività di massa.
Giovani e meno giovani prendono, copiano, tagliano, rimescolano incessantemente il loro patrimonio di immagini, per divertirsi, sperimentare e raccontare storie, diventando però, in un battibaleno, sospetti criminali per le major del disco e l’industria di Hollywood, che temono la violazione dei loro diritti di proprietà sui materiali usati per le produzioni amatoriali.
Un paradosso. Mentre l’elettronica di consumo e le telecomunicazioni offrono strumenti sempre più potenti per tagliare e cucire testi, musica e immagini, e poi immetterli in rete, nei computer vengono inseriti chip che controllano come, quando e cosa si produce, e perfino dove viene spedito: è la tecnologia del Trusted Computing. Sempre loro, tolto il cappello di produttori di hardware e fornitori di connettività, indossata la veste di editori, impongono misure sempre pù restrittive sui contenuti di cui detengono i diritti usando le famigerate TPM, le misure tecniche di protezione che mettono il lucchetto ai contenuti digitali in modo che non si possano utilizzare a fini creativi: sono i DRM, i Digital Rights Management.
Se non bastasse, bandi pubblici e concorsi istituzionali intitolati all’innovazione e alla creatività ospitano solo opere originali che “non” siano frutto di manipolazioni, oggetto di mash-up, elaborazioni di idee altrui. Insomma pretendono che a gareggiare siano giovani artisti e creativi le cui opere siano state partorite in laboratori asettici, senza alcun contatto col patrimonio culturale preesistente (e con la rete).
E infatti, per protestare contro questo miopia creativa, i “commoners” italiani reagiscono affilando le armi del culture jamming. Oragnizzano concorsi dove possono partecipare solo quelli che fanno del cut-up e del remix la loro bandiera, feste di pirati digitali e convegni sull’open source e festival di cortometraggi in creative commons. E’ l’era della creatività o no?

Lascia un commento