A Roma la carica degli hacker E’ l’informatica ‘do it yourself’

hackmeetingHackmeeting 2010
Il tredicesimo raduno di esperti di computer e rete dal 2 al 4 luglio al centro sociale La Torre. Per discutere, confrontarsi e mettere in pratica un uso consapevole della tecnologia
Arturo Di Corinto*
per Repubblica.it del 2 luglio 2010

L’Hackmeeting è il più importante raduno delle culture hacker in Italia e da venerdì 2 luglio torna a Roma, al centro sociale La Torre. Per la tredicesima volta da quando è nato, per tre giorni, le controculture digitali del nostro paese discuteranno dei temi cari ai libertari della rete: privacy e controllo, mercato e autoproduzione, conflitto e normalizzazione, software, hardware e reti di comunicazione.

Ma attenti, questi hacker, che non sono solo virtuosi del software, ma artisti, attivisti, curiosi e smanettoni che eccellono nei rispettivi campi di interesse, non sono l’uomo nero dipinto dalla stampa e lo spauracchio delle aziende antivirus, sono degli innovatori. La pratica del do it yourself che gli hacker hanno mutuato dalla cultura punk è infatti tutt’uno con la passione per la tecnologia e il suo intimo funzionamento ed esprime l’attitudine di chi sta “coi piedi per terra e la testa nella tecnologia”. Radicati negli ambienti più disparati, provenienti spesso da aziende affermate che hanno contribuito a sviluppare, vivono nella galassia dei centri sociali, lavorano al recupero di hardware, sono appassionati di software libero, insegnano nelle scuole e hanno come orizzonte la trasformazione della società. La forte connotazione etica della loro curiosa attitudine alla condivisione e alla conoscenza si esprime allo stesso modo che si tratti di smontare e rimontare un apparato tecnologico per capirne l’intimo funzionamento, oppure di decostruire i messaggi del mercato e della politica.

La galassia hacker, nata a cavalllo degli anni 60 nei dormitori universitari di Harvard, Stanford, Berkley, è coeva alla nascita e allo sviluppo di Internet, che subito hanno usata come strumento per collaborare e condividere i progressi della tecnica e “mettere nelle mani di ciascuno gli strumenti per capire il mondo”, cioè i computer. Per questo da sempre non amano né copyright né brevetti. Oggi è una cultura vera e propria con i suoi riti, i suoi linguaggi e le sue regole. E non puoi chiamarti hacker se la tua comunità non ti riconosce come tale. E’ per questo che le distinzioni che tanto piacciono alla stampa fra hacker buoni e cattivi – white hat, gray hat, black hat – suscitano in genere una clamorosa risata in chi quella cultura la vive e la riproduce ogni giorno.

Certo non sono marginali o fricchettoni antisistema. E’ gente che vive in mezzo a noi, prende l’autobus e forse compra anche l’iPhone, la differenza sta nella diversa consapevolezza con cui si approcciano al mondo. Consapevoli dei limiti imposti dalla tecnologia e dagli standard di mercato, cercano di aggirarli e creare delle alternative, tecnologiche e culturali. La comunità hacker italiana non ha un pensiero unico. Per loro la diversità è una ricchezza, il rispetto, non i favori, è la moneta sonante con cui si scambiano i saperi. Perciò se la scelta di cosa usare per fare cosa può essere spinta – tra le altre cose dall’etica, l’utilizzo che suggeriscono di ogni strumento è un uso critico e consapevole. E questo è il loro messaggio più profondo.

http://hackmeeting.org

Arturo Di Corinto è autore di Hacktivism, la libertà nelle maglie della rete (Manifestolibri 2001)

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