Tutto cambia? Cambiamo tutto?

wired_logo_it.gif
Wired.it
Tutto cambia. Cambiamo tutto?
Di Arturo Di Corinto |11 marzo 2009 |Categorie: Cultura

Tutto cambia. Cambiamo tutto? È questo il titolo della due giorni in cui si è dato convegno a Roma il gotha della comunicazione pubblicitaria italiana. L’11 e 12 marzo, su invito dell’associazione degli Utenti di Pubblicità Associati, UPA, e di Assocomunicazione, il Summit sulla comunicazione è l’evento che nelle parole di Lorenzo Sassoli De Bianchi, patron della manifestazione, dovrebbe consentire di “incontrarsi per capire quale metamorfosi attraversi la pubblicità”. Un momento dove stare: “Tutti assieme intorno al tavolo della fiducia e riavviare la comunicazione come motore del mercato economico”, “per dotarsi di previsioni suggestive e visionarie e per avere i grandi player dei media a confronto con i ricercatori e gli imprenditori”.

Quindi la cornice dell’evento è chiara: c’è bisogno di capire quali sono i nuovi bisogni dei consumatori e come giungere al loro cuore perché è evidente a tutti che “Le aziende oggi si confrontano con un consumatore più esigente, informato, selettivo, pragmatico, che dalle aziende si attende affidabilità e trasparenza, responsabilità e dialogo”. E questo perché “Il consumatore non è più un soggetto passivo, ma un protagonista attivo all’interno della società, delle relazioni e dei flussi di comunicazione con i suoi processi di scelta sia individuale che di appartenenza a tribù omogenee”. Tutto vero, ma si potrebbe obbiettare che è un consumatore “squattrinato” che non può permettersi di farsi sedurre dagli stili di vita artificiali offerti da una pubblicità che finora ha ignorato esigenze profonde e che al massimo si è messa addosso la foglia di fico della responsabilità sociale d’impresa o riverniciando gli effetti perversi di un consumo insostenibile col greenwashing, la pretesa di convincere i consumatori che un Suv non inquini…

Ma se il vero tema è la crisi dei consumi che la pubblicità stenta a trainare, allora non è casuale che il summit sia stato aperto, dopo i saluti di rito degli ospiti e del sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani, da Walter Alesina, economista italiano di stanza ad Harvard, che nel suo intervento ha definito la crisi economica una crisi di fiducia.
Per Alesina, il ruolo giocato dai media e dalla comunicazione nella crisi è centrale. Anche gli operatori della comunicazione hanno spesso la memoria corta e peccano di eccessivo ottimismo e di eccessivo pessimismo, incapaci come sono di guardare ai trend economici. Al contrario, secondo il professore, si eviterebbe forse una comunicazione “bombastica”, cioè sensazionalista ed enfatica, se si fosse capaci di interpretare le variabili strutturali dell’economia che negli ultimi cento anni ha visto periodi di espansione e contrazione.
E se queste affermazioni sembrano in linea col Presidente Berlusconi che a ogni piè sospinto rimprovera i media di pessimismo, indirettamente ne sconfessa la ricetta per uscire dalla crisi: “non sono le grandi opere che pure servono, che ci faranno superare questo momento, ma una giustizia commerciale e un’amministrazione pubblica più efficienti”, ha detto. Consapevole che comunque il mondo è cambiato, Alesina ha ribadito come quella che viviamo non è la prima né l’ultima crisi del capitalismo liberale, ma che un ruolo nel superamento della crisi può svolgerlo il mondo della comunicazione, sapendo, come il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che finora non è cambiato molto, e che nel futuro non cambierà molto.

Perciò è stato significativo che dopo di lui sia intervenuta Arianna Huffington, fondatrice dell’Huffington Post, che, intervistata da Kara Swisher, ha affrontato “il” tema, cioè la crisi del mondo editoriale che “è” crisi della pubblicità e quindi dei consumi. La Huffington, che ha creato il quotidiano online che coi suoi 20 milioni di contatti al mese avrebbe tirato la volata agli elettori di Obama, ha speso la maggior parte del suo intervento a spiegare come in un mondo di nativi digitali è tempo di pensare nuove soluzioni per arrivare al “cuore dei consumatori”, anche se non vede contrapposizione fra il mondo dei media digitali e della carta stampata che la sua generazione continuerà a leggere per gli approfondimenti e il piacere di tattile di girare le pagine dei giornali. “Le mie due figlie “guardano interi show televisivi online, ma acquistano tonnellate di riviste patinate come Vogue e Vanity Fair”. Ha dichiarato.
Certo, secondo la giornalista è tempo di rivedere le strategie editoriali e il rapporto con gli utenti. Loro l’hanno fatto offrendo a tremila persone l’accesso in scrittura al proprio giornale, ma dotandosi al contempo di una redazione di 30 persone che ne filtra i contenuti perché è comunque necessario un equilibrio fra gli user generated contents e il professionismo giornalistico.

Ma se anche il NYT è in crisi, nonostante il boom di contatti online, come si fanno i profitti? Anticipando la risposta ai dati forniti durante la manifestazione da Enrico Finzi, presidente di Astra Ricerche, di un calo del consumo pubblicitario pari al 10%, la Huffington ha offerto la sua ricetta: tradurre la comunicazione online in comunicazione offline, come ha magistralmente mostrato di sapere fare Barack Obama, aggiungendoci un pizzico di creatività in più. Lei ci ha provato facendo da testimonial alla pubblicità della Prius ibrida della Toyota e riproponendola sul suo sito. Ma secondo Finzi le cose non sono così semplici: gli investimenti sulla comunicazione del settore editoria e dei media sono in picchiata. Come contenitori di pubblicità le peggiori performance sono quelle dei quotidiani il cui futuro ha detto “è legato alla parziale fuoriuscita dalla carta stampata”.
Chi avrà ragione?

Lascia un commento