Il Manifesto: Smart working e diritti dei lavoratori
Hacker’s Dictionary. A causa del Coronavirus le imprese rischiano lo stop, ma possono evitarlo in tutto o in parte grazie allo smart working. A patto che rispettino i diritti (e la privacy) dei lavoratori
di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 27 Febbraio 2020
Le aziende temono il Coronavirus e corrono ai ripari. La produttività è già calata di diversi punti percentuali a causa di controlli e blocchi stradali, chiusura degli uffici e poca voglia di lavorare di fronte ai rischi dell’epidemia. In molti casi acquisti e vendite subiranno solo uno slittamento, ma intanto la paura fa novanta.
Perciò, complice il timore che il governo imponga il blocco delle attività produttive nelle zone a rischio, le aziende spingono lo Smart Working. Che cos’è lo dice la parola, è il “lavoro agile”, un lavoro fatto da casa o da qualsiasi posto si trovi il lavoratore e ovviamente vale per la quasi totalità di forme di lavoro che richiedono un computer, un telefono e una connessione a Internet.
Però. Intanto lo smart working è regolato dalla legge. Non è una concessione dell’azienda, ma una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro stabilita mediante accordo tra le parti (L.81 del 22/05/17), che prevede una serie di diritti e garanzie per il lavoro flessibile.
Potete decidere voi dove stare e come organizzare il vostro lavoro ma la prestazione è soggetta ai medesimi limiti di durata massima dell’orario di lavoro derivanti dalla legge e dal CCNL e non può essere un modo per farci lavorare di più. La scelta del luogo di lavoro deve inoltre rispettare i requisiti di riservatezza e senza controlli a distanza (art.4 stat. Lav.), a meno che non vi sia un diverso accordo sindacale o il consenso sottoscritto dal lavoratore. Con un’avvertenza: il datore di lavoro ha facoltà di controllare unicamente il risultato del lavoro e la sua organizzazione anche se il dispositivo che usa è stato fornito dall’azienda. E, come per il computer personale, non può obbligare il lavoratore a utilizzare il suo smartphone per ricevere le telefonate di lavoro. Può farlo solo sulla base del consenso informato e revocabile del lavoratore che può decidere se accettare di utilizzare i suoi mezzi oppure no.Ma non basta.
ll datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa e della loro gestione dei. La legge impone di cooperare con il datore di lavoro per garantire la sicurezza di dati, software e dispositivi in base alle policy di sicurezza IT aziendale.
Secondo Filippo Monticelli di Fortinet, azienda di cybersecurity, «Per fare smart working in maniera sicura si devono dotare i dipendenti di strumenti adeguati. L’accesso remoto va fatto con dispositivi che devono far parte del perimetro aziendale visto che diventano il punto di interconnessione con l’azienda e si fa con strumenti ad hoc.»
Non basta gestire in sicurezza i dispositivi, ma ogni strumento che permette di entrare nella rete aziendale. «Le aziende che lo fanno oggi sono pochissime. Gestire un dispositivo remoto presso il domicilio di un dipendente ha implicazioni di privacy e non solo. Una connessione cifrata, un firewall o una Vpn (Rete privata virtuale), in grado di segmentare il traffico domestico da quello aziendale potrebbero non bastare.» Spesso chi lavora a casa ignora le norme applicate in azienda, a cominciare dalle regole minime di igiene cibernetica: l’aggiornamento del sistema operativo, l’uso di antivirus, password robuste e complesse che vanno cambiate anche sui router per il wi-fi, ma senza dimenticare il backup dei dati. Altrimenti anche la Vpn non serve.
«Bisogna strutturare politiche di smart working – dice Monticelli -, attraverso decisioni incentivate dal governo.» Come quelle usate per combattere la disuguaglianza digitale.