Arturo Di Corinto
Per Il Sole 24 Ore – Nova Review
del 11 marzo 2010
Dopo che Al Gore ebbe lanciato l’idea delle information superhighways, debitore dello slogan a un padre che si occupava di autostrade, si parlò di una nuova era ateniese della democrazia in cui il popolo avrebbe finalmente preso la parola e partecipato alla gestione della cosa pubblica grazie a Internet. Successivamente si sprecarono le analisi sul ruolo di Internet nelle elezioni politiche e si disse che finalmente i piccoli partiti avrebbero potuto gareggiare ad armi pari sulla rete grazie a una tecnologia che riduceva le differenze di budget, visibilità e consensi presso l’elettorato grazie a computer domestici e accessi flat-rate per il passaparola politico. Previsioni sbagliate, visto che a poco a poco ci si rese conto che quelli con più soldi avrebbero fatto i siti più belli, ingaggiato i migliori consulenti e realizzato i contenuti più adatti a creare sinergie con altri mezzi di informazione. La vicenda di Obama non è un’eccezione a questo processo definito di normalizzazione della rete. Obama era certo un candidato con una storia da raccontare, capace di intrattenere e di far sognare, con una larga base di militanti, ma soprattutto era sostenuto da una macchina elettorale che raccoglieva e reinvestiva soldi nella campagna via Internet per posizionarlo dentro e fuori il web e i social network meglio degli avversari. Da allora tutti hanno provato a copiarlo, con alterne fortune.
Il rapporto fra i politici italiani e la rete rimane invece un rapporto non facile, caratterizzato da diffidenze reciproche gonfiate anche da un giornalismo improvvisato e sensazionalistico. A complicare il rapporto fra Internet e politica, l’equiparazione tra Facebook e l’eversione degli anni 70, le denunce nei confronti dei blogger per un post di troppo, gli endorsement fasulli per questo o quel candidato.
Eppure approssimandosi la competizione elettorale, i partiti sembrano in parte aver fatto tesoro dei cattivi esempi che l’uso di Internet applicata alla politica ci aveva finora offerto: i siti volantino e i blog chiusi ai commenti, fotografie ammiccanti e nessuna interattività col pubblico elettorale.
Qualcosa è cambiato, e si vede nel buon livello di sofisticazione tecnologica dei siti dei candidati, che oggi hanno mappe georeferenziate, tag cloud e messagistica SMS, videoclip, suonerie e le icone dei social network. A guardare meglio, però, si tratta per lo più di bandierine piazzate in fila che permettono di accedere a contenuti striminziti che ripetono il vecchio rituale della propaganda politica e che enfatizzano all’eccesso la vetrinizzazione del candidato in rete, che accumula fan su Facebook e follower su Twitter senza un vero dialogo con l’elettore.
Alcuni abbozzano timidi tentativi di negative campaigning, la propaganda negativa in cui si critica e ridicolizza l’avversario ribaltandone il messaggio. Mentre auasi tutti i candidati che campeggiano coi loro manifesti sui muri non rinunciano a indicare il proprio sito web al passante distratto, quasi nessuno di loro si dedica a fare seeding del proprio indirizzo e dei propri contenuti, accontentandosi per la più di piazzare qualcosa sui media sociali. Così gli iscritti ai canali youtube dei candidati sono pochi, i post su Facebook sono prevalentemente dello staff, le discussioni sui blog rare. Ma nessuno, proprio nessuno, prova a fare l’esperimento che servirebbe: costruire il programma proprio e del partito in rete in completa trasparenza. Si chiama Wikidemocracy. La democrazia del Wiki.
Eppure casi di eccellenza ce ne sono. Renato Brunetta ha lanciato il suo social network Grande Venezia e un’applicazione per iPhone da cui accedere a programma, news e sondaggi del candidato sindaco. Il partito di Vendola ha lanciato la campagna “Mettiamoci la faccia”e invita a scaricare un messaggio di sostegno già pronto, stamparlo, farcisi una foto e caricarlo sul sito di Sinistra, Ecologia e Libertà. Il più tecnologico sembra il sito del candidato PDL in Lombardia, Formigoni, che interagisce via smartphone con gli elettori e pubblica i loro SMS sul sito. E data l’enfasi posta sulla comunicazione mobile sembra l’unico ad avere capito che è quella la killer application della futura comunicazione politica.
Parecchi offrono il proprio programma alla discussione in rete. L’Italia dei Valori fa un eccellente uso di video professionali per presentare gli 11 punti del programma (assai commentati), in Campania l’accattivante sito di Stefano Caldoro invita gli elettori a contribuire al programma, già scritto, inviando le proprie idee dal sito (ma non si sa dove finiscono), offrendolo ai commenti dei lettori (rarissimi), cosa che non accade col ricco sito di Roberto Formigoni dove in tanti hanno votato una proposta per incentivare il telelavoro e sostenere le aziende.
La moda del momento comunque sembrano essere le tag cloud e il servizio di SMS che, se talvolta non funziona, serve a costruire utili database per contattare gli elettori. Molti non disdegnano la richiesta di finanziare la campagna con meccanismi tanto complicati da renderla inefficace.
Se il sito di Filippo Penati è graficamente pulito ed elegante, e implementa strumenti di condivisione come Share this, il sito di De Luca offre, come altri, un’utile mappa dei comitati elettorali e un numero verde cui gentilissime operatrici rispondono per dare informazioni su programma ed eventi del candidato campano del PD, e lo stesso fa la Polverini.
Tutti esempi di un rapporto in costruzione fra la politica e le logiche del web 2.0 che sconta in molti casi un ritardo culturale e un sospetto malcelato per meccanismi di democrazia non maturati nel faccia a faccia parlamentare e di sezione. Ma che pure ci dicono che esiste un’imprenditoria diffusa della comunicazione web che ha intercettato alcune tendenze della rete, la crosmedialità, l’uso di Cms liberi e gratuiti, licenze creative commons e il dialogo aperto con gli oppositori, e che è in grado di farle accettare ai candidati che, quando ne hanno i mezzi, le implementano, senza necessità di capirle fino in fondo. In tutto questo i contenuti della campagna spesso scompaiono e diventano slogan di facile effetto e nessuna verifica. In queste elezioni tecnologiche il mezzo è il messaggio, ma non si può ancora parlare di obamizzazione della politica in rete. Come ha sottolineato Manuel Castells, l’approccio dei partiti al web 2.0 è tecnologico ma non concettuale perchè la macchina comunicativa resta in mano ai partiti e gli elettori rimangono sullo sfondo a fare da comparse.