Wired: Biohacker, ecco chi sono gli hacker della vita

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  Biohacker, ecco chi sono gli hacker della vita

Cresce il numero di persone e comunità che fanno ricerca biologica nello stile hacker: al di fuori delle istituzioni, in forma aperta e orizzontale

Di Aruro Di Corinto per Wired del 7 Febbraio 2014

Tutto comincia con un’automobile issata sopra una torre. Sono stati loro, i burloni del campus, a mettercela, e da quel giorno ogni gesto insensato e gratuito sarebbe stato chiamato “un hack” e “hacker” i responsabili.

Il termine però, che già significava parecchie cose, da tagliaboschi a giornalista fallito, diventerà l’epiteto di chi faceva correre i trenini del Tech model railroad club al MIT per essere successivamente affibbiato a quelli che invece dei trenini su di un plastico facevano andare più veloci i computer a valvole dei dipartimenti universitari. Tenuti sottochiave, gli faranno visita di notte, meritandosi il nome di reality hackers. Il biasimo per le serrature violate onde mettere le mani sopra ai computer (“hands on”), è la maledizione che si porteranno dietro tutti i futuri esperti di software e reti di comunicazione, gli “eroi” della rivoluzione informatica, nonostante Steve Jobs, Bill Gates, Bruce Perens e Richard stallman siano stati gli imprenditori e i ricercatori più noti a fregiarsi di questo titolo. Negli anni 80 la parola hacker sarà confusa con “cracker”, il termine giusto per indicare chi viola sistemi informatici per trarne un vantaggio personale, e diventerà sinonimo di criminale informatico per essere usato con tutta una serie di aggettivi tipici del profiling criminale: white, gray, black hat hacker, per definirne, dal bianco al nero, il grado di rispetto verso la legge.
Poi arriveranno espressioni come ninja hacker, data hacker, growth hacker. Ma è l’ultimo aggettivo che oggi apre le strade di una riformulazione complessiva del termine: BioHacker

Ma chi è il biohacker? I biohacker sono persone e comunità che fanno ricerca biologica nello stile hacker: al di fuori delle istituzioni, in forma aperta e orizzontale, condividendo le informazioni. Secondo Alessandro Delfanti, autore del libro Biohacker. Scienze della vita e società dell’informazione (Eleuthera 2013), “Si tratta di esperienze in cui, tramite la rete o costruendo laboratori a cui chiunque possa accedere e partecipare, si cerca di rendere la biologia più collettiva e aperta.” Proprio come accade nella produzione di software open source? “Sì. Immagina un laboratorio come un hackerspace in cui chiunque, senza bisogno di un dottorato in biologia, può contribuire usando strumentazione open source, riciclata o costruita dalla comunita stessa.”
Ma quanto è affidabile? “Si tratta di piccoli esperimenti di biologia molecolare o ingegneria genetica. Ma l’aspetto politico è interessante: questi luoghi mostrano che la biologia non è riservata alla torre d’avorio della scienza accademica o industriale.”

Cioè? “Ci sono diverse comunita di biologia DIY (Do It yoursel “fai da te”): negli ultimi dieci anni il fenomeno si è espanso dagli stati uniti al Canada, Europa, America Latina e Asia.” Ci spieghi meglio? “I gruppi di biologia DIY americani sono spesso piu concentrati sul lato imprenditoriale e quindi cercano di lanciare start up basate su forme di ricerca distribuita, e puntano a essere finanziati dal venture capital.” E in Europa? “In Europa c’è di solito un interesse maggiore sul lato politico del biohacking: i laboratori sono visti come luoghi in cui sperimentare nuove forme di rapporto tra scienza e società, verso un modello in cui le persone hanno più potere mentre le grandi industrie o università devono cedere parte del loro monopolio sulla ricerca biologica.”

Esattamente così la pensa anche Salvatore Iaconesi, docente, hacker e artista open source: “Le dinamiche dell’hacking sono uscite dal campo del software e iniziano a contaminare altri saperi, come le scienze della vita. I BioHacker, partendo da questioni di brevetti e proprietà intellettuale, mettono in discussione la ricerca e la pratica dei “Big Bio”, i grandi operatori delle scienze biologiche, aprendole, comprendendone gli schemi e rendendoli accessibili, inclusivi e partecipativi.”

Gli fa eco Delfanti: “E infatti In questo senso il biohacking ricalca il ruolo degli hacker nelle nostre società: portatori di una forte critica al sistema dei media digitali, ai monopoli, alla proprietà intellettuale, alle nuove concentrazioni di potere.” “Tuttavia c’è un rischio: molti hacker sono parte integrante del capitalismo digitale delle grandi imprese della silicon valley e sono spesso pronti a trasformare tecnologie nate come forme di opposizione alla cultura dominante in modelli di business con scopi ben diversi da quelli di liberazione che ispirano gli hacker piu politicizzati.”

Vedremo lo stesso fenomeno nella biologia? “Beh, per ora sappiamo che Bill Gates un paio di anni fa ha dichiarato che se fosse un ragazzo oggi si dedicherebbe al biohacking: è il suo modo per indicare le potenzialita’ commerciali del fenomeno e la possibilità che esso sia in grado di rompere monopoli consolidati per affermare nuovi attori imprenditoriali, un po’ come successe negli anni settanta con le comunità hacker che sfidarono IBM e crearono nuovi mercati per il personal computer.”

Iaconesi non pare preoccupato da questo scenario: “L’hacking è una modalità, una ritualità. L’hacker carpisce saperi e informazioni, ne produce una comprensione approfondita e trasparente, e opera nella direzione di una loro maggiore accessibilità, aprendo lo scenario ai risultati più inaspettati, generativi, inclusivi. Perciò l’hacking è un fenomeno complesso, che sfugge la classificazione. Quando si parla di hacking i campi del sapere e le discipline si intrecciano. Perciò le classificazioni servono a poco: importante è osservare il rimiscelarsi positivo di discipline e approcci in evoluzione costante, offrendo una diversa visione per il futuro.”

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