Gli imbecilli e la libertà da Gutenberg a Facebook per Eco che non ha capito il senso del web
di Arturo di Corinto per Che Futuro! del 13 Giugno 2015
I social network danno parola a tutti, anche agli imbecilli. Ma non è detto che gli offrano ascolto”. Ecco, detta così, la provocazione di Umberto Eco avrebbe avuto tutto un altro senso. Ma lui, grande intellettuale, colto e raffinato provocatore, durante il conferimento a Torino di una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, ha scelto una formula diversa per criticare i social media. La frase esatta, riportata dall’Ansa, suona così: «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli», una frase che ha subito e ovviamente scatenato una ridda di polemiche proprio sui social network.
Intesa come una provocazione, l’uscita dello intellettuale piemontese andrebbe rivalutata positivamente. È probabile che concordi che il dialogo, il dibattito, il confronto anche aspro siano il “sale della democrazia” e, se questo avviene nei social network o al caffè letterario, non fa differenza. Tuttavia, poiché è arduo sostenere che Eco sia un antidemocratico, l’infelice formulazione della frase sembra denunciare l’estraneità del grande scrittore al mezzo digitale cui forse nel futuro vorrà dedicare un uguale tempo di riflessione a quello che ha dedicato a stampa e tv.
L’ERA DEI SOCIAL
Proviamo, allora, a ragionare sul ruolo e sulla funzione dei social e della rete. I social network e i social media hanno oggi il ruolo che i luoghi pubblici tutti insieme hanno avuto nella storia per lo sviluppo della democrazia, dalla basilica all’agorà, dalla piazza al bar fino ai conciliaboli filosofici.
Però se i social network e i social media sono allo stesso tempo, bar, stadio, piazza, basilica, biblioteca e sala convegni è scontato che in essi i comportamenti siano quelli propri di questi luoghi. Ma i “social” sono anche la protesi, il prolungamento e la versione moderna di tutti gli altri mezzi di comunicazione divenuti digitali per la convergenza tecnica e dei contenuti in un processo noto come “rimediazione”, il processo dove un medium ne veicola un altro.
Perciò mentre i social media sono diventati canale di distribuzione di vecchi e nuovi editori, e usati secondo la stessa logica per contribuire al dibattito pubblico e formare la pubblica opinione, ma anche per vendere news come merci, creare consenso e generare profitti, i social network sono la piazza dove questi effetti si consumano. E però questi ultimi mostrano una caratteristica finora inedita: nei social tutti possono rispondere, commentare, approfondire, verificare, comparare, criticare, chiedere una rettifica alle informazioni lette, viste, ascoltate. Tutte azioni finora impossibili da esercitare nei confronti dei media broadcast e mainstream.
Insomma Internet non ha solo offerto la “piazza virtuale” agli imbecilli, ma ha offerto a tutti noi un luogo dove poter esercitare il sacrosanto diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, alla libertà d’opinione, di critica e di satira, ma anche alla libertà di associazione e cooperazione: su scala planetaria. Certo in Internet si danno fenomeni odiosi come l’hate speech, il cyberbullismo, lo stalking digitale ma per ognuno di essi ne esiste la versione analogica.
Certo il web è in grado di propalare più velocemente gabole e bufale, ma questo accade con tutti i mezzi di comunicazione. Da sempre.
LA RETE CREA CONOSCENZA E LIBERTA’
Dice Eco che «la tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità». Anche questa affermazione del nostro pensatore è discutibile.
Infatti per diffondere a livello planetario la bufala dei Protocolli dei Savi di Sion non abbiamo avuto bisogno di Internet. Anche la credenza che la terra fosse piatta non ha avuto bisogno di Facebook, e per ascoltare in diretta l’invasione aliena di Orson Wells ci è bastata la cara vecchia radio. E l’uso propagandistico del cinema ai tempi del nazismo per affermare il culto della razza ariana è oggetto di studio da decenni.
Certo che la rete è piena di bufale e notizie inesatte! Pullula di teorie cospirative e di maleducati che danno solo fiato ai peggiori istinti pre-politici dell’umanità (in tal senso fanno storia, ad esempio, i tweet di molti politici), ma la rete ha avuto un effetto di democratizzazione delle conoscenze e del dibattito pubblico come solo si era avuto ai tempi dell’invenzione della stampa a caratteri mobili.
La rivoluzione del fabbro-ferraio Johnannes Gutenberg che vide finanziata da un “venture capital” dell’epoca la sua “startup” per stampare meccanicamente la Bibbia, ha avuto come effetto quello di sottrarre il monopolio dell’interpretazione della parola di Dio agli officianti accreditati, cioè al clero, mettendolo in mano al popol bue che cominciò la rivoluzione mercantile con l’ascesa della borghesia e degli stati nazione riuniti sotto i vernacoli che via via prendevano il posto del latino, non più la lingua privilegiata per scrivere e leggere la Bibbia.
L’ATTENDIBILITA’ DELLE FONTI ONLINE E IL RUOLO DEI GIORNALI
Il nostro stimato intellettuale ha poi invitato i giornali «a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». Si rassicuri, lo si fa di già. I cablogrammi della diplomazia americana, le informazioni sulle storture della guerra in Iraq e Afghanistan diffuse da Wikileaks sono state pubblicate sui grandi giornali solo dopo un’attenta valutazione di team internazionali di giornalisti esperti.
E comunque i giornali la maggior parte delle notizie le prende ahimè dalle agenzie professionali, motivo per cui si somigliano sempre di più e sono più facilmente oggetto di manipolazione.
Molto condivisibile invece la sua tesi quando dice che «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». Questo approccio pedagogico cui le grandi testate quotidiane hanno rinunciato è territorio tuttavia di giornali, riviste e siti specializzati e sono l’oggetto dello scrutinio dei cacciatori di bufale come Massimo Mantellini, Pierluigi Tolardo, Macchianera e altri blogger.
Tuttavia quello della credibilità delle notizie in rete è un non problema. È stato dimostrato scientificamente che l’Enciclopedia Britannica contiene un 30% di errori, poco più di quelli che si trovano su Wikipedia. Ma su Wikipedia chi se ne accorge li può correggere real time. Anche le notizie dei giornali non sono sempre credibili e le fonti talvolta sono inaffidabili. Ricordate l’informativa fasulla pubblicata da Vittorio Feltri su Dino Boffo? Oppure la polverina bianca sbandierata in conferenza stampa da Colin Powell per giustificare l’aggressione all’Iraq colpevole di nascondere “armi di distruzione di massa”?
Umberto Eco vede un futuro per la carta stampata. «C’è un ritorno al cartaceo. Aziende degli Usa che hanno vissuto e trionfato su internet hanno comprato giornali. Questo mi dice che c’è un avvenire, il giornale non scomparirà almeno per gli anni che mi è consentito di vivere. A maggior ragione nell’era di internet in cui imperversa la sindrome del complotto e proliferano bufale».
Sul futuro del “Quarto Potere” non ci sentiamo di dargli ragione. E non solo per l’avvento dei robot-giornalisti che scrivono e pubblicano già oggi notizie di sport e finanza. E neanche per i nuovi supporti digitali microfilmici su cui leggeremo le news. Quanto piuttosto per la moltiplicazione dei pubblici e quella sorta di oralità di ritorno per cui tutti diventano editori di sé stessi, capaci di rivolgersi a una audience da costruire e coccolare giorno per giorno.
Vero è che la fine dei giornali di carta è stata a lungo preannunciata senza mai verificarsi
E che noi tutti abbiamo bisogno di giornalisti bravi che ci aiutino a indagare il mondo e a interpretarlo, ma è anche vero che i quotidiani vivono un momento congiunturale difficile e proprio per riparare ai danni di una crisi strutturale riducono i compensi, svuotano le redazioni, sbarcano su Internet e cercano disperatamente nuovi modelli di business. Oggi chiunque si informa attraverso Internet, non più monopolio di editori interessati (quelli “puri” come gli Ochs Sulzeberger del New York Times ce ne sono stati pochi), può trovare chi fa bene e onestamente il mestiere di filtrare le informazioni e confezionarle come notizie usando nuove tecniche di scrittura e di pubblicizzazione che hanno al centro il dialogo coi lettori.
La grande sfida del civic journalism, il giornalismo partecipativo è proprio questa, trasformare ogni netizen in un giornalista per caso, capace di raccontare prima e meglio delle tradizionali redazioni quello che gli succede intorno mentre succede. I giornali mainstream l’hanno capito e si sono alleati al giornalismo fai da te, basta guardare i blog dei quotidiani, quasi tutti tenuti – gratis – da giornalisti non professionisti che si sono fatti le ossa proprio su Internet.