I dati che indicano i nostri comportamenti sociali
Il controllo nell’epoca del Coronavirus: dopo sarà necessario ragionare sullo spazio in cui viviamo
Arturo Di Corinto per Roforma del 31 marzo 2020
Zoom ci spia. La piattaforma per videoconferenze tanto in voga durante la quarantena passa(va) le nostre informazioni a Facebook. Lo stesso vale per altre app, siti e software che grazie ai dati generati dalle nostre interazioni creano profili statici e dinamici, singoli o aggregati, della nostra persona digitale, quella che ci precede nelle interazioni online e che viene usata da Amazon per decidere il prezzo da proporci quando navighiamo tra i suoi prodotti.
Il capitalismo delle piattaforme fa questo: estrae valore dalla profilazione degli utenti e dal data mining dei nostri comportamenti online. In questo modo le aziende sanno con precisione che cosa offrirci, quando, dove e a quale prezzo, sapendo già cosa siamo propensi a desiderare. Il loro modello di business è basato sulla conoscenza dei soggetti isolati e iperconnessi che più tempo passano con i loro software gratuiti più facilmente manifesteranno desideri, fragilità e sentimenti da soddisfare con un’azione: postare, condividere, cliccare, comprare. Ogni click diventa l’occasione per arricchire il nostro profilo psicometrico, venderlo al migliore offerente, anche per le campagne politiche. È così che Trump ha vinto.
La colpa di un uso così disinvolto dei dati è anche nostra. Non abbiamo ancora capito il valore della nostra presenza online. I dati che generiamo quando siamo online indicano dei comportamenti e, in una società digitale, questi comportamenti sono trasformati in dati digitali. Il trattamento dei dati digitali consente di interpretate e spiegare i comportamenti passati ma anche di predire i comportamenti futuri. È così che i nostri dati vengono resi “produttivi”. Siccome quei dati possono essere venduti e comprati, le piattaforme ci offrono gratis i loro servizi. Ma quei servizi li paghiamo con i nostri dati. Quando non paghi qualcosa il “prodotto” sei tu.
Per questo è importante proteggere i nostri dati digitali, anche imparando a capire se, come e quando ci conviene offrirli alle grandi piattaforme. Ci farebbe bene innanzitutto leggere i ToS, i Termini di Servizio di app, siti e software di uso comune: scopriremmo che Instagram diventa proprietaria delle nostre foto e che LinkedIn può geolocalizzare la nostra posizione o che WhatsApp non si ritiene responsabile della violazione di sicurezza delle nostre foto. Motivo in più per cancellare documenti, biglietti d’aereo, immagini amorose che ci scambiamo in chat.
I nostri dati vanno protetti per proteggere la riservatezza dei nostri comportamenti: come, quando con chi ci colleghiamo, ci amiamo, facciamo affari. Informazioni utili agli stati autoritari, a un parente geloso, a un concorrente sleale. I dati ci definiscono come buoni o cattivi consumatori, buoni o cattivi lavoratori, buono i cattivi vicini di casa. I dati indicano i nostri comportamenti sociali.
È per questo che qualcuno ritiene lecito usarli per sapere se siamo usciti di casa durante la quarantena, dove siamo andati e con chi siamo intrattenuti. È lecito? Sì, a certe condizioni. Intanto la decisione di utilizzarli va presa in Parlamento, con leggi ad hoc che minimizzino la raccolta e il trattamento dei dati ai fini del contenimento della pandemia da Coronavirus. Non basta la deroga al Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) che consente l’uso dei dati personali per la salvaguardia della salute pubblica, sia perché in tempo di crisi i governi sono sempre tentati di limitare le libertà fondamentali introducendo nuove forme di sorveglianza, sia perché i cambiamenti di oggi potrebbe essere destinati a rimanere. Una volta presa la decisione bisogna comunicare con massima trasparenza l’uso che verrà fatto di quei dati e una volta terminata la necessità di usarli, vanno distrutti. La scelta non è tra la salute e la privacy, ma tra la possibilità di essere curati nel rispetto dei propri diritti ed essere curati nella totale mancanza di rispetto dei diritti.
Poi, finita la fase dell’emergenza potremo tornare a ragionare sull’uso dei software adottati nelle scuole, per lo smart working e per l’intrattenimento. Le aziende che divorano i nostri dati, li usano per raffinare i prodotti che ci offrono a pagamento. Esistono però molte alternative al mondo del software proprietario e commerciale che evitano di inviare in paesi stranieri, con ridotta protezione della privacy, i nostri dati personali e l’esito di ogni interazione elettronica. Degooglizzare la nostra vita non è facile, ma è importante gestire in maniera consapevole i dati prodotti.
Non sappiamo infatti che uso potrà esserne fatto. D’altra parte chi si aspettava di dover stare chiusi in casa tutto questo tempo?