La Repubblica: Sì, troppo ego uccide il social

Sì, troppo ego uccide il social
di ARTURO DI CORINTO*
per La Repubblica del 28 Marzo 2012

E’ vero, troppo ego uccide il social. Beppe Smorto ha ragione e il suo intervento è stato quanto mai opportuno considerato il livello di feticismo associato alla presenza di molti di noi nei siti sociali. E’ anche vero che il medium è il messaggio, il twit è il messaggio, il profilo Facebook è il messaggio, ma per una malintesa idea di modernità secondo cui essere presenti sui siti sociali è diventato un must. Soprattutto per i politici, come ha ben analizzato Sara Bentivegna nel suo ultimo libro Parlamento 2.0. Strategie di comunicazione politica in Internet (FrancoAngeli, 2012).
Però. Andiamo con ordine, evitiamo le polemiche da bar sport e analizziamo il fenomeno.

Per spazzare il campo dalle prime obiezioni ricordiamo che adesso ci sono le prove scientifiche: Facebook favorisce l’esibizionismo. Se in molti avevano sospettato che gran parte del successo del social network riposava sulla coppia voyerismo-esibizionismo, la psicologia non ha più dubbi: i 15 secondi di celebrità che molti cercano su Internet spesso assumono un tratto patologico. Lo dice uno studio condotto dagli psicologi della Western Illinois University secondo cui il social network indurrebbe i giovani a comportamenti egoisti e a un pericoloso esibizionismo. Condotto con la tecnica del questionario e presentato nella rivista Personality and Individual Differences, lo studio mette in relazione il comportamento su Facebook e l’accumulazione di amici con i disturbi narcisistici di personalità.

Egoismo e Narcisismo
Infatti dentro Facebook è facile assistere alla gara di aggiungere amici al proprio carnet. Il risultato è un numero di contatti ingestibile psicologicamente, ma accettabile nella logica di Facebook. Che è quella di moltiplicare all’infinito la propria rete di relazioni sociali, attualizzando la teoria dei sei gradi si separazione, un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una catena di conoscenze con non più di 5 intermediari.
In realtà da un punto di vista psicologico si tratta di una logica più profonda, l’idea che ogni potenziale gratificazione originata dalle relazioni umane – visibilità, ascolto, attenzione, affetto, protezione – dipenda dai numeri più che dalla intimità delle relazioni vissute. Evitando di pronunciarci sul merito delle relazioni umane che ciascuno intrattiene, è ovvio per tutti che ognuna di esse necessita di tempo, di attenzione, di scambi continui e significativi per poter parlare di amicizia. E allora se può essere sensato avere 50-60 amici – o perfino 150, secondo il numero magico di Dunbar, cioè il presunto limite cognitivo del numero di individui con cui una persona può avere una relazione stabile e significativa – sembra assai complicato gestirne trecento o più.
Perciò Facebook appare come una sorta di Auditel dell’amicizia: non misura la qualità delle relazioni (come l’Auditel non misura la qualità dei programmi tv), ma la loro quantità, considerandole equivalenti da un punto di vista psicologico. Come per i programmi Tv si presume che maggiore sia il numero di televisori accesi su un programma, maggiore sia il suo gradimento. Ma l’auditel, come Facebook, non tiene conto dei contatti inerziali. Così come si sceglie un canale tv per abitudine, per avere compagnia mentre si svolgono le faccende domestiche, così una strategia tipica per gestire l’offerta di nuove amicizie via Facebook è quella di accettarle tutte (ma ci sono segnali di una inversione di tendenza). Senza andare troppo per il sottile si includono sbrigativamente nuovi amici nel proprio network per non essere considerati “antisociali” o per aumentare il proprio presunto potere comunicativo misurato dalla numerosità degli amici. Dimenticando però che sia FB che gli altri SNS (Social Network Sites) sono delle piazze sociali dove i passanti non necessariamente si accorgono di quello che dici.

Precariato e Solitudine
Questa sorta di banalizzazione dei rapporti umani che scambia la qualità con la quantità è la spia di due fenomeni della “modernità liquida”: il precariato e la solitudine. Stare su Facebook è diventato un modo per dire “Ehi, mondo, io sono qui”, ma anche un modo per aumentare i propri contatti personali e sperare che a quel moltiplicarsi corrisponda l’aumento esponenziale di occasioni di viaggio, studio e lavoro. Talvolta é il tentativo di fare comunità, una comunità immaginata e immaginaria, che possa colmare il vuoto creato da una modernità che obbliga al nomadismo e alla dispersione territoriale causati da esigenze di lavoro, da affitti troppo alti, dalla difficoltà dei rapporti face to face per questioni geografiche, di tempo, di soldi.
Tra gli effetti di questa corsa a costruire network di relazioni, quello che accade è che nella speranza di moltiplicare le occasioni di incontro e di conoscenza si cerca di aderire il più possibile a stereotipi positivi spesso creandosi un’immagine artificiale. Non è il vecchio tentativo – prima consentito dall’anonimato in rete – di crearsi un’identità altra per sperimentare e mettere alla prova parti meno conosciute del sé, ma un modo per compiacere chi ci guarda rendendosi più attraenti. E’ comune infatti che si scelgano fotografie ritoccate per apparire più desiderabili: con un rischio mai abbastanza considerato, prima o poi qualcuno pubblicherà la tua foto di quando eri grasso e brufoloso.

Networked Individualism
Questa logica da palcoscenico che sa tanto di esibizionismo e del suo contrario, il voyeurismo, è probabilmente un prodotto della cultura televisiva, quella dei tronisti e delle veline, il disperato tentativo di farsi vedere, di vedersi, di vedere e di far vedere (Raffaele Simone, Il mostro mite, Garzanti 2009). Si tratta insomma di una forma di esperienza che ai suoi livelli pù bassi assurge a un unico scopo: la dimostrazione della propria esistenza in vita. Una pratica che, al livello più alto, rappresenta la manifestazione compiuta di un naturale e infantile egocentrismo. A livello intermedio appare come un gioco di ruolo virtuale per persone annoiate che hanno tanto tempo a disposizione per tenere costantemente aggiornato il proprio profilo ed esplorare l’uso di nuovi applicativi per pubblicare foto, video e altro oppure per generare un aleatorio consenso sociale e politico.
D’altra parte Facebook, secondo alcune teorie, è uno strumento di ambient awareness cioè di quella strategia di attenzione fluttuante che ti aiuta a cogliere il ritmo della vita degli amici che non riesci sempre a incontrare ma a cui puoi dire: “ci sono, ti ascolto…”. Un aspetto positivo di un sito come FB, sempre meno giocato, è però che consente una grande libertà di apparire come si vuole e di costruirsi un profilo che sia il più vicino possibile ai propri desideri: un esperimento di ingegneria sociale su base planetaria e collettiva. Altro aspetto positivo riguarda la possibilità di costruire relazioni sui legami deboli, quelli che ti vengono in aiuto quando gli amici che ti già ti conoscono e ti somigliano non hanno soluzioni a problemi troppo simili ai propri. Ma c’è un aspetto da valutare: FB consente di ritrovare i vecchi compagni di scuola e riannodare relazioni ormai date per perse, a un patto però: scordatevi la privacy e beccatevi la pubblicità.

Twitter è diverso
Diverso è il discorso di Twitter. Anche qui sono stati i media tradizionali e la diplomazia internazionale a tirarne la volata. Fino a tesi assai discutibili secondo cui certe “rivoluzioni” sarebbero state innescate da Twitter. Al di là della retorica oggi sappiamo che l’incompiuta rivoluzione verde iraniana veniva twittata da pochi account sul territorio e la maggior parte dei twit veniva prodotta da appartenenti alla diaspora. Ma anche che senza le tv satellitari non ci sarebbero state le insurrezioni arabe (Augusto Valeriani, Twitter Factor, Laterza 2011)
Twitter ha gli stessi difetti di Facebook. Anche lì si crede di parlare al mondo quando ahimè sono ben pochi a essere letti e rimbalzati. Anche lì funziona la logica televisiva: i personaggi già noti perchè sul palcoscenico dei media tradizionali hanno il maggior numero di follower.
Ma c’è una differenza. I twit funzionano specificamente come dei “pointer” cioè dei link che rimandano ad altre fonti informative, gli stessi deprecati giornali e televisioni, o ai blog, che per natura hanno un respiro più lungo. La velocità di aggiornamento di Twitter è tale che è impossibile seguire tutti i twit e molto faticoso estrapolare quelli che vale la pena approfondire. Tranne quando il messaggio è espressivo per se stesso e sintetizza in 140 caratteri un pensiero o un’informazione complessa. Michele Serra infatti ha torto: la sintesi è una caratteristica dell’arguzia, ergo un segnale di intelligenza, altrimenti come valutare la brevità delle sue amache a confronto con le inchieste giornalistiche che parlano delle stesse cose? Serra è meno intelligente e chiaro e informato perchè più sintetico? Evidentemente no.

Per chiudere, un’avvertenza. Ogni tecnologia o medium di trasmissione non ha mai un singolo uso e la sua essenza sta sempre nelle interpretazioni contraddittorie e contingenti che ne danno gli attori sociali, in un contesto socialmente situato. Perciò ogni giudizio che si dà su di esse è giocoforza limitato e temporaneo. Fino alla prossima smentita.

* Arturo Di Corinto è uno psicologo cognitivo, condirettore di Logos Lab presso il Cattid-Sapienza ed è autore di I Nemici della Rete (Rizzoli, 2010). www.dicorinto.it

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