Il Manifesto

Chi comanda dentro Internet?

Internet viene confuso dai più giovani con i servizi di sorveglianza commerciale come Facebook che, profilando gli utenti, ne modellano e predicono i comportamenti.

Internet viene studiata nelle facoltà universitarie, ma spesso senza il fastidio di applicarvi il pensiero critico che riguarda il rapporto con il potere. Eppure è proprio la vecchia promessa di Internet di redistribuire il potere, dal centro alla periferia, dalle «corporation» agli individui, che da tempo è sotto attacco di oligopoli delle Telecomunicazioni e del Big Tech.

Per questo motivo è molto importante che l’Italia rimanga impegnata nella celebrazione degli «Internet governance forum» locali e globali.

Ieri è cominciato a Cosenza l’IGF italiano sotto l’egida delle Nazioni Unite. Tre giorni di confronto e scambio di idee sul futuro della rete.
Appaltata al Sistema italiano delle Camere di Commercio (grazie), in una delle regioni peggio cablate d’Italia, può essere l’occasione di discutere del rapporto tra il potere e il Web.

Con trenta appuntamenti e il patrocinio dei ministeri per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione e dello Sviluppo economico potrebbe essere l’occasione per dirsi in faccia quello che non funziona invece di farne una passerella per i politici e di chi si candida a fargli da portaborse.

La prima domanda da fare è: a chi giova l’asimmetria che risulta evidente nei rapporti tra potere e Web? Leggi al limite della censura, burocrazia mangiasoldi, gestione politica maldestra e difesa di lobby intoccabili, fondi destinati all’innovazione congelati nelle casse dello Stato. Cui prodest?

Ci si potrebbe chiedere perché i politici si rivolgono al popolo su Facebook anziché ai giornalisti, che fine ha fatto il piano per l’innovazione presentato l’anno scorso dalla ministra Pisano, che cosa ha scoperto la task force governativa sulle fake news o quali startup ricevono i soldi del Fondo per l’Innovazione e perché.

Ci si potrebbe chiedere perché nel nostro ordinamento giuridico non esiste ancora un «diritto d’accesso» alla rete, perché la «Carta dei diritti di Internet» non è ancora legge dello stato, chi è che produce i «trojan di stato», perché non si rispetta la legge sul Software libero.

Oppure perché le università Sapienza o l’Università di Torino abbiano trasferito su Gmail tutta la loro corrispondenza e, invece di usare le piattaforme del Garr e del Cnr, i ministri Manfredi ed

Azzolina acconsentano all’utilizzo di Zoom e Google Meet per gli esami a distanza.

E potremmo chiederci anche cosa fare per incrementare la cultura della Rete, affinché nei comunicati della presidenza del consiglio, a proposito della riscrittura dei Decreti sicurezza non si parli più di misure «contro un uso distorto del web».

Che vuol dire? Detto così già fa ridere, ma ancora di più fa ridere la ribattuta giornalistica della presunta «stretta sul Dark Web» per chi confonde lo spaccio online, che avviene nel Surface, Deep e Dark web, con il Dark Web stesso, luogo sì di traffici illeciti, ma anche imperfetta «nuvola di protezione» per giornalisti e dissidenti politici e religiosi.

A tutte queste domande ci auguriamo possa rispondere l’IGF.