Se ci provassero i pirati a disegnare un nuovo mondo?

Il meeting di hacker a Parma. Pronti ad una grande sfida
Hackmeeting 2006
Arturo Di Corinto
Liberazione, prima pagina, 31 agosto 2006

Puntuale come sempre, anche quest’anno è arrivato l’Hackmeeting, l’incontro delle culture hacker italiane. Si terrà a Parma dall’1 al 3 di settembre, in un edificio occupato per l’occasione dagli attivisti che organizzano l’incontro e che si ritrovano intorno alla mailing list omonima www.hackmeeting.org. Questo sarà il nono meeting italiano e dal primo – tenutosi a Firenze nel 1998 per la felice intuizione della comunità raccolta intorno a Isole nella Rete www.ecn.org – tante cose sono accadute e sollecitano qualche riflessione.

In questi dieci anni abbiamo assistito ad una forte accellerazione relativa ai territori del digitale. L’informatica e i new media non sono più una questione da specialisti, computer, software e banda larga sono considerati commodities, beni di consumo come tutti gli altri. I giganti scampati alla bolla della new economy, Google, e-Bay, Amazon, sono cresciuti, offrono servizi gratuiti e continuano a distribuire dividendi. L’industria del software non conosce crisi e il Nasdaq, la borsa dei titoli tecnologici ha ricominciato a correre. I blog, i siti personali che da diari in rete si sono evoluti in organi di informazione dal basso dando vita al cosiddetto civic journalism sono arrivati a quota 50 milioni e Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa online cui tutti possono aggiungere lemmi e modificare voci, compete per accuratezza con l’enciclopedia Britannica.

Il software libero e open source si rivela ogni giorno di più una valida alternativa a quello del monopolista Microsoft di cui erode pian piano importanti fette di mercato mentre le licenze Creative commons per i contenuti digitali elaborate da Lawrence Lessig hanno ribaltato il concetto di copyright basato su “tutti i diritti riservati” consentendo ad autori ed editori di stabilire di volta in volta i possibili usi di un’opera con la formula “alcuni diritti riservati”. Oggi poi è possibile telefonare gratis via Internet, il Wi-fi, l’Internet senza fili, viene offerta nei parchi pubblici e molti paesi procedono a tappe forzate verso l’informatizzazione e l’e-government.

Tutto questo è successo in dieci anni mentre Internet creava inedite possibilità di dialogo, creatività ed espressione facendo da apripista a una nuova cultura della partecipazione democratica. Eppure non tutti sono ancora in grado di accedere alle meraviglie della rivoluzione digitale e Internet rimane un territorio di conflitto dove la libertà non è scontata né garantita.

La mutazione di Internet
Internet, che da progetto governativo si è presto trasformata in un grande esperimento sociale, attravera una fase di cambiamento profondo. Secondo alcuni oggi assistiamo al passaggio dalla Internet 1.0, degli hacker e dei ricercatori, aperta e modulare, alla Internet 2.0, quella del business e dell’e-commerce, presidiata da brevetti e copyright.

Probabilmente è vero. Per le imprese Internet è sempre di più uno spazio da colonizzare per farne un’infrastruttura di commerci virtuali, presidiata da mastini polizieschi pronti a intervenire al primo segnale di comportamenti che non siano ludici e di consumo, mentre molti governi la percepiscono come un pericoloso luogo da normare e vigilare, onde espellerne qualunque voce dissenziente.

E infatti nell’ultimo anno Internet ha collezionato molteplici e spesso riusciti tentativi di repressione: non solo in Cina, dove Google si autocensura e Yahoo contribuisce all’arresto dei suoi utenti; ma anche in Tunisia, dove da poco hanno liberato gli internauti di Zarzis, i giovani scolari ingiustamente accusati di essere dei terroristi per aver scaricato testi relativi all’Intifada palestinese; e perfino negli Usa, dove Bush, senza successo, aveva provato ad ottenere di identificare i visitatori dei siti erotici.

Nel frattempo l’impegno dei governi ad affrontare le disuguaglianze digitali sembrava scemare, tanto che l’Onu ha voluto un summit mondiale per discuterne riconoscendo nella rete un grande strumento democratico per lo sviluppo del potenziale umano e per la crescita economica, come ha ribadito Kofi Annan al vertice di Tunisi dedicato alla società dell’informazione. Www.itu.org/wsis

Il ruolo degli hacker
Gli hacker che si incontrano a Parma nel consueto meeting annuale hanno di fronte una grande sfida: l’autogoverno della rete, che ne siano consapevoli oppure no.
Gli hacker, che una cattiva pubblicistica ha dipinto come dei criminali informatici ma che sono invece quelli che “hanno costruito il world wide web, le conferenze Usenet, i codici crittografici e i protocolli di comunicazione di Internet”, hanno avuto sempre un ruolo cruciale, seppure nascosto, nel garantire le libertà che la rete promuove e rappresenta, “costruendo dispositivi di comunicazione e mettendo a disposizione di tutti risorse informative o realizzando programmi e contenuti open source”. Perciò di fronte a problemi come la censura, il digital divide, la crociata delle major contro i ragazzini che si scambiano film e musica, la comunità hacker non vuole stare a guardare.

In questi dieci anni c’è stata una chiara maturazione della scena hacker italiana, a lungo divisa sull’opportunità di legare l’intervento politico alla dimensione ludica e specialistica della telematica amatoriale. Oggetto di numerose discussioni fra quanti affermavano il carattere neutrale di reti e computer e quanti sottolineavano l’importanza delle nuove forme di comunicazione digitale per costruire un mondo più giusto e solidale e “creare un’alternativa alla società del codice civile e del codice a barre”, le due posizioni si sono progressivamente fuse in una cultura critica della rete dove i giovani “smanettoni” di oggi sono molto più attenti a un contesto in cui i Internet e i computer modellano valori e comportamenti sociali.

E tuttavia l’hackmeeting sarà all’insegna delle battaglie di sempre, per la privacy, per il software libero, per la libertà di imparare, creare e condividere, perchè oggi i nemici di Internet e della cultura hacker, una cultura di condivisione e cooperazione, appaiono più pericolosi che mai: sono il Trusted computing e i Drm, la censura online, i monopoli, gli strumenti di sorveglianza digitale. Ad ognuna di queste minacce, gli hacker, i virtuosi del software, hanno nel tempo dato risposte efficaci, spostando sempre più in avanti il confine della pratica e della sperimentazione, verso territori, quelli del ciberspazio, dove costruire i mondi in cui vivere liberi. Negli anni hanno costruito reti di file-sharing per la condivisione di software, musica e libri; strumenti di autodifesa digitale per garantire la riservatezza delle connessioni; archivi di video autoprodotti cui attingere liberamente; web-radio, blog e mailing list dove autogestire la propria informazione. Ma di fronte alla voracità delle major e all’ottusità dei governi, il conflitto oggi non appare più rinviabile e se ne sono accorti anche quelli più moderati.

Dalle brutte vicende del sequestro del server di Indymedia alle querele di Trenitalia contro il collettivo Autistici/Inventati passando per i reiterati tentativi di rendere il software brevettabile, la sfida tra gli hacker da una parte, i legislatori disattenti e i mercanti di cultura dall’altra, deve compiere un salto di qualità. Di questo sembrano essere consapevoli gli hacker italiani, alcuni dei quali stanno lavorando a un “Partito dei pirati” che anziché assaltare navi o attaccare siti vogliono affermare il diritto a uscire dai recinti del copyright che strangola innovazione e creatività.

Problema pressante che emerge qua e là nel programma degli incontri di Parma e sintetizzabile nella strategia delle major del cinema e del disco di imbrigliare la rivoluzione digitale con sistemi di controllo e di autorizzazione all’esecuzione di file musicali e audiovisivi con lucchetti tecnologici per garantirsi un flusso costante di introiti non solo per ogni file scaricato dalla rete ma anche per ogni singola esecuzione di un’opera digitale già acquistata. Una strategia che va di pari passo con l’azione di lobbying per l’approvazione di leggi draconiane atte a far rispettare un presunto diritto di “proprietà intellettuale” a cui gli attivisti digitali oppongono il concetto di “patrimonio intellettuale”, in tal modo affermando il carattere collettivo, storico e sociale della produzione di sapere e di cultura.

Perciò nel meeting si parlerà di musica autoprodotta, media indipendenti, di Linux e copyleft, e di tutti quei sistemi che impediscano di irregimentare le pratiche ideative nelle gabbie del mercato, nella convinzione che non tutto ciò che vale va pagato, e che non tutto ciò che è buono ha un prezzo. Il baratto, lo scambio, la cooperazione, sono e rimangono per gli hacker gli ingredienti primi dell’economia della conoscenza.