Internet e la libertà: davvero business è solo business ?

Arturo Di Corinto da Atene, 1 novembre 2006 –
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Nella foto Joychi Ito e Jamie Love

Internet Governance Forum: ad Atene finalmente si entra nel vivo del dibattito. Nel secondo giorno, la plenaria sul tema dell’Openness, cioè la libertà di informazione, d’espressione e il libero scambio di conoscenze, comincia con uno scivolone del ministro greco che allude alla eventualità di porre limiti alla libertà d’espressione via Internet e prosegue con una raffica di accuse contro le ripetute violazioni di quel diritto basilare da parte della superpotenza cinese.

Poi arriva la carica dell´IFF – Foundation For a Free Information Infrastructure – che dice a chiare lettere «no» ai brevetti software, e tanti altri che parlano di connettività a basso costo, libertà di religione, trasparenza nel rapporto fra stato e cittadini, di blog ed etica dell’informazione.

Sembra avere stappato il vaso di Pandora. Sì, perchè viene chiamata in causa la responsabilità sociale delle imprese, in particolare di quelle come Microsoft, Cisco, Yahoo!, che vendendo tecnologie e conoscenze ai paesi autoritari contribuiscono indirettamente a comprimere i diritti degli utenti della rete. L’uomo di Microsoft tenta una timida risposta, evasiva, «non è il tema di stamattina», «dobbiamo rispettare la legge dei vari paesi», «Internet ha un grande valore per il business, la formazione e la crescita di ogni paese». È poco convincente, la platea non apprezza, e tantomeno gli altri panelist. Ma «che Cisco abbia venduto router speciali alla polizia cinese, è o no un problema etico?», insinua il moderatore, Nik Gowing della Bbc. Art Reilly, l’uomo di Cisco nel panel risponde: «Non se sono a conoscenza», «certo il libero flusso dell’informazione è in pericolo, lo sappiamo, ma quello che noi vendiamo è lo stesso per tutti gli acquirenti, in tutti i paesi», ma dalla platea incalzano, «ci sono le prove che siete collusi con il governo repressivo di Pechino».

Interviene anche Annette Estherhuysen della Apc – un organizzazione non governativa che promuove Internet nel campo dei diritti umani – «È un problema reale, ma come evitarlo?» Difficile da dire. Per la parlamentare europea Catherine Trautmann la risposta è che purtroppo per molti operatori commerciali il mercato è più importante della libertà d’espressione e aggiunge: «Va bene vendete, ma noi dobbiamo proteggere gli utilizzatori». «Abbiamo chiesto di stabilire una carta di diritti della rete (ne ha parlato anche la senatrice Beatrice Magnolfi il primo giorno e mercoledì verrà presentata la proposta italiana), che non è una cosa astratta» «è proprio questo che si chiama governance». «Altrimenti», continua, «a livello europeo potremmo smettere di cooperare con governi repressivi e fare pressione su di loro».

Insomma, per tutti la questione diventa come le aziende possono far valere il loro potere contrattuale verso i governi. Impossibile? Non secondo Richard Sambrook, direttore news della Bbc secondo cui i principi sono più importanti del business e per questo non sono entrati nel mercato cinese. «Se in Cina non ci vedono ci dispiace, ma non vogliamo censure». Tutto il contrario della scelta di Google, difesa dalle accuse di collusioni da Vinton Cerf nel ruolo del pompiere una volta di troppo, che ricorda come l’azienda per cui lavora, Google, rispetta le leggi cinesi (no ai contenuti politici nei suoi database in Cina) ma non offre piattaforme di blogging né servizi di email all’impero mandarino per evitare di diventare delatori loro malgrado.

Per Jamie Love, tuttavia, Internet rappresenta ovviamente una minacca per i regimi autoritari ma è incredibile che mentre in Cina denunciano i giornalisti, negli Usa le stesse aziende chiedono maggiore libertà di manovra.

È l’altra faccia della medaglia. Il doppio standard dell’etica della comunicazione. Non tarda molto infatti perché gli interventi si concentrino sugli apparati censori degli stati occidentali e così un blogger, un giornalista, ricorda al ministro greco presente, che in Grecia è stato arrestato un blogger per avere linkato informazioni scomode. Anche in questo caso la difesa d’ufficio del ministro è debole: «Non ne sono a conoscenza». Eppure era stato proprio lui a sollecitare il tema del rapporto fra la libertà d’informazione e le leggi contro la diffamazione via Internet. Tema su cui non si sposta di un millimetro: le informazioni false non vanno diffuse.

Prova a replicare Joichi Ito, controverso imprenditore nella veste di partecipante al progetto Creative Commons che gli dice che le bugie le dice la televisone come la radio, la differenza è che su Internet si può chiederne la rettifica, protestare, correggere il tiro e scusarsi nello spazio di un minuto. È la rete bellezza.

Il dibattito prosegue su controllo, censura, carta delle Nazioni Unite. C’è chi è pronto a barattare la propria libertà con più sicurezza. La retorica guerresca di Bush ha fatto breccia. Ma non tutti ci stanno: meno privacy non significa più sicurezza.

A chiudere la plenaria sull’Openness arriva il discorso su brevetti e copyright che minacciano il libero scambio di conoscenze. L’argomento è meno controverso del precedente, anche le grandi aziende presenti, ma che non si occupano di contenuti, valutano positivamente gli «user generated contents» ma storcono il naso alle parole della Esterhuysen: «Bisogna ridefinire il dominio pubblico e guardare ad alternative come Creative Commons. Accesso a informazioni e conoscenza, significa accesso a beni pubblici informativi collettivi». Per molti degli intervenuti il diritto alla condivisione è un imperativo, e l’open source e gli open standard creano lavoro, impresa e comunità. Un´idea che fa dire all’onorevole Trautmann che «ci vuole un forte rinnovato ruolo del pubblico nella produzione di informazioni e conoscenza». «Per diffondere l’innovazione», ripeteranno gli uomini della Bbc. «I contenuti prodotti dagli utenti sono una grande fonte di ricchezza per tutti». E Jamie Love rivolto alle imprese del software: «Oltre che nei contenuti, anche nell´informatica, il codice software, gli standard liberi e aperti, sono una ricchezza. Siete sicuri che vi conviene mantenerne il monopolio?»

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