Libri, Formiche: Chip sotto pelle: chi tutela la privacy?

Formiche 144

FORMICHE: Separati (e felici?) Perché il Nord reclama l’autonomia

Collana: Riviste
2019, pp 96
Rubbettino Editore, Riviste, Formiche, 2019
isbn: 9788849858303

Chip sotto pelle: chi tutela la privacy?

di ARTURO DI CORINTO per Formiche 144

15 Aprile 2019

Che fine farà la privacy e quali sono i rischi per la sicurezza informatica di quei dati seduti sottopelle? Secondo il fondatore della svedese BioHax sarebbero più complicati da hackerare di altri dispositivi come gli smartphone e, non essendo dotati di Gps, non consentirebbero di seguire fisicamente il portatore. Il chip invece dotato di Gps potrebbe tener traccia con grande precisione dello spostamento dei dipendenti all’interno di un’azienda, dire quante ore passano al computer o quante volte si sono alzati dalla loro postazione per andare al bagno, bere un caffè, parlare con un collega. Il Trades Union Congress teme che i dipendenti siano obbligati ad accettare gli impianti e la Cbi, Confederation of BritishIndustry, che rappresenta 190 mila aziende britanniche, si è detta preoccupata della prospettiva.

Il primo impianto di un chip sottocutaneo funzionante e non nocivo fu sperimentato dal vicerettore dell’Università di Coventry, l’ingegnere Kevin Warwick, come parte del suo “Progetto Cyborg”. Il chip Rfid gli permetteva di aprire porte e di accendere luci col solo movimento della mano. Oggi si contano nel mondo circa 50 mila persone che hanno seguito il suo esempio e usano il chip sottocutaneo per svolgere una serie di attività che prevedono l’autenticazione del portatore sostituendo modalità di pagamento come quelle basate sulle carte magnetiche.

I chip sono in genere iniettati tra il pollice e l’indice della mano e la procedura può essere svolta sia in un ambulatorio sia a casa usando un kit sterile da ordinare per posta. Basati sulle tecnologie Rfid costano tra i 100 e i 200 dollari e possono essere utilizzati per registrare informazioni personali relative all’identità, ma anche il numero di carta di credito, la tessera sanitaria e la password dei computer. Simili a quelli che si utilizzano per controllare la posizione e la proprietà di cani e gatti vengono usati per interagire con varie applicazioni domotiche che consentono l’apertura di garage, la regolazione della temperatura o l’avvio dell’automobile.

Al momento la funzionalità più apprezzata è relativa ai pagamenti elettronici. In Svezia la sperimentazione dei chip con tecnologia Nfc per pagare le ferrovie nazionali è già in fase avanzata e molti cittadini di Stoccolma usano i chip per viaggiare sugli autobus della capitale.

Sono molti i lavoratori che negli Usa hanno già accettato di farsi impiantare un microchip, ma in Gran Bretagna i sindacati hanno fatto scattare l’allarme dopo che una società inglese, la BioTeq, ha cominciato a commercializzarli per singoli privati e piccole aziende contando di allargare il suo giro d’affari in Italia, Usa e Giappone. Anche una società svedese, la BioHax, li produce e avrebbe già siglato una serie di contratti con aziende interessate a impiantarli ai propri lavoratori per ottimizzare una serie di prestazioni.

In effetti i chip possono memorizzare una grande quantità di dati ed essere usati per velocizzare le pratiche di accesso alle postazioni di lavoro. Proprio per questo molti si chiedono che fine farà la privacy e quali sono i rischi per la sicurezza informatica di quei dati tenuti sotto pelle. Secondo il fondatore della svedese BioHax, sarebbero più complicati da hackerare di altri dispositivi come gli smartphone, e non essendo dotati di Gps, non consentirebbero di seguire fisicamente il portatore. Tuttavia diversi biohacker scozzesi e americani hanno già dimostrato che è possibile interferire con il funzionamento di questi dispositivi. E rimane inevasa la domanda sulla privacy. Il chip dotato di Gps potrebbe tenere traccia con grande precisione dello spostamento dei dipendenti all’interno di un’azienda e dire quante ore passano al computer.

La questione di fondo è che si potrebbe verificare una progressiva trasformazione degli uomini in macchine cyborg. Come già spiegavano Hans Moravec e l’artista Stelarc nei primi anni Novanta, il tema, etico e filosofico, è la nuova natura del corpo umano in cui la cultura tende a sostituirsi alla biologia e la tecnologia alla fisiologia. Con risultati imprevedibili. Ma c’è chi ne ha fatto una bandiera, ad esempio Istvan Zoltan, imprenditore americano di origine ungherese, ritiene che sia un’evoluzione necessaria. Dotato anche lui di un chip sottocutaneo, proprio teorizzando l’integrazione spinta tra l’uomo e la macchina, ha fondato il Partito Transumanista Internazionale che “predica” il potenziamento macchinino delle nostre capacità fisiche e cognitive “per anticipare il dominio delle macchine” e liberarci dalle schiavitù del corpo fisico: respirare, mangiare, muoversi. Secondo lui, che si era candidato alle presidenziali americane del 2016, il Transumanesimo, la sostituzione dei nostri arti e degli organi biologici con protesi robotiche e il potenziamento della mente umana grazie all’Intelligenza artificiale, ci permetterà di sconfiggere l’invecchiamento, vivere in mondi virtuali, esplorare lo spazio, immuni da fame, rischi e malattie. Insomma, l’Homo deus raccontato da Yuval Noah Arari è già fra di noi e nella sua eterna ricerca di trascendenza si sta già preparando a “caricare” la coscienza in un computer.

  • Articolo a firma dell’autore apparso sulla rivista mensile “Formiche” numero 144, febbraio 2019. La rivista è stata fondata da Paolo Messa, editore Base per Altezza, Roma (pagg. 66 e 67).