Il Manifesto: Che fine ha fatto il telefonino etico?

Che fine ha fatto il telefonino etico?

Hacker’s Dictionary. Per la plastica non si è fatto ancora abbastanza, e per l’inquinamento dei rifiuti elettronici? Un’azienda olandese ha provato a costruire uno smartphone equo, solidale, amico dell’ambienteù

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 13 giugno 2019

Alcuni paesi hanno messo al bando piatti, bicchieri e cannucce di plastica, perfino i cotton-fioc, per ridurre l’inquinamento planetario. Verrebbe da dire “troppo poco, troppo tardi”, soprattutto se consideriamo che Trenitalia regala ai clienti di prima classe una bottiglietta di plastica che verrà buttata a fine viaggio e che ad ogni spesa al supermercato compriamo in media due buste che invece di distruggersi in 400 anni ce ne metteranno cinquanta. Però almeno se ne parla. Ciò di cui non si parla è invece l’inquinamento prodotto dalle plastiche e dai metalli dei telefonini. Ce ne sono quasi 6 miliardi nel mondo e in media vengono cambiati ogni 18 mesi. Dove vanno a finire i vecchi smartphone? Nel migliore dei casi in discarica. Qualche volta sono ricondizionati, ma la filiera è lunga, il procedimento costoso, gli acquirenti pochi. E tuttavia non è solo un problema di inquinamento.

Un artista italiano, sviluppatore di videogiochi, Paolo Pedercini, con la sua MolleIndustria qualche anno fa ha creato un gioco per farci capire che dietro ogni smartphone c’è un bambino sfruttato nelle miniere di coltan nel Congo, un lavoratore a rischio suicidio in Cina negli impianti che lo producono 24 ore su 24, sette giorni a settimana, e un mare di rifiuti elettronici spediti in Pakistan.

Pedercini è da anni l’avanguardia italiana dei radical games, quei giochi che sfruttando la logica della gamification ci insegnano qualcosa.

Il fondatore della Città del Sole, Carlo Basso, diceva che “il gioco è una cosa seria”.

Ecco, ad Amsterdam c’è qualcuno che ha preso il problema dei rifiuti elettronici dei nostri telefonini come una cosa seria e ha deciso di creare un telefonino etico. Si chiama Fairphone, appunto, ed è realizzato secondo le logiche del commercio equo e solidale. Nato nel 2013, giunto alla seconda versione, è un oggetto di cui è facile sostituire ogni parte, e i suoi materiali di base sono certificati per garantire che l’ambiente, i lavoratori, gli intermediari non siano stati sfruttati per produrlo. Il sistema operativo su cui si basa è Android e nella versione nuova di zecca costa 500 euro, ricondizionato ne costa neanche 300. Non è proprio per tutti.

E tuttavia già dal design è progettato per un uso duraturo, affinché non sia considerato dai compratori un apparecchio usa e getta ma un oggetto che può essere modificato e riparato. Finora ne sono stati venduti 100 mila.

I materiali contenuti in questo smartphone sono certificati e per farlo l’azienda, nata come una cooperativa giovanile lavora a stretto contatto con fornitori selezionati per impedire lavoro minorile e atteggiamenti antisindacali nel settore minerario da cui provengono. Il 90% di tutti gli smartphone è prodotto in Cina. Adesso con la guerra economica Usa-Cina forse saranno di meno, ma bisogna ricordare che la produzione a basso costo, dovunque avvenga, va sempre a danno della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Dentro Fairphone i controlli li fanno con sindacalisti, Ong e ricercatori, insieme alla rete di produzione di elettronica pulita (CEPN) che ha l’obiettivo di evitare l’esposizione dei lavoratori alle sostanze tossiche derivanti dal processo di produzione, incoraggiando l’economia circolare basata su riutilizzo e riparazione per ridurre i rifiuti elettronici nel mondo.

Non risolveranno i problemi dell’inquinamento, ma almeno affrontano il problema dell’obsolescenza programmata di tutti i dispositivi tecnologici che vengono riciclati in condizioni di lavoro pericolose o che finiscono nelle discariche.