Il patto di Sanremo. Dall’alleanza restano fuori solo gli utenti

I provider saranno i vigilantes della rete, a rischio il diritto alla privacy

Arturo Di Corinto
Il manifesto 03/03/05

E’ un paese impazzito, anzi schizofrenico, quello rappresentato dal triumvirato digitale di Stanca, Gasparri e Urbani. Danno con una mano e tolgono con tutt’e due. E in questo sono l’esatta fotocopia del Governo.

Ma tale schizofrenia è preoccupante più di altre quando si legifera così tanto e male su questioni centrali per lo sviluppo economico, sociale, culturale del paese, trasformandolo nella parodia di sé stesso. Infatti, da una parte si invoca il pluralismo nel settore radiotelevisivo, dall’altro con il Sistema integrato delle comunicazioni si consegna ai soliti noti la maggior parte della torta pubblicitaria che deve finanziarlo. Da un lato si dice di promuovere la crescita culturale dell’Italia, dall’altro si taglia il Fondo unico dello spettacolo, si mettono in difficoltà istituzioni come la Scala e Santa Cecilia, si toglie all’Università. Da una parte si sostiene il riuso del software nelle pubbliche amministrazioni e la diffusione di quello open source, dall’altra si fanno accordi di settore con la Microsoft. Da una parte si dice che i brevetti danneggiano l’innovazione e bloccano lo sviluppo delle piccole e medie imprese, dall’altro, si rinuncia a farne oggetto di discussione politica al Parlamento europeo. In un comma del nuovo codice della proprietà industriale si dice che non si possono brevettare: le scoperte, le teorie scientifiche, i metodi matematici, i programmi per elaboratori; e in quello successivo ci si affretta a precisare che metodi matematici ecc. si devono intendere “in quanto tali” e non per le loro applicazioni, aprendo la strada alla brevettazione di principi, metodi e idee.

Esempio ultimo di questa schizofrenia governativa è di ieri. Approfittando della ribalta mediatica di Sanremo i ministri competenti hanno firmato con imprese e associazioni di autori ed editori un insieme di linee guida da adottare per la promozione e la diffusione di contenuti digitali (e-content) su Internet “nel rispetto delle normative vigenti e con l’obiettivo di promuovere il patrimonio culturale dell’Italia e la crescita etico-sociale dei suoi cittadini” ma trasformando i provider in vigilantes della rete, facendo carta straccia del diritto alla privacy, facendo ricadere la tutela delle opere nel calderone dei DRM, i sistemi di protezione digitale dei diritti intellettuali.
Hanno sottoscritto le linee guida grandi imprese come Microsoft, Ibm, Telecom, o associazioni come la Fieg, l’Anica, l’Agis, quindi sia i produttori di contenuti, che i fornitori di essi. Meno di quelli previsti dal Governo, più di quanti ci si potesse aspettare da quelle linee guida.

Se l’obiettivo comune è combattere la pirateria digitale, il significato profondo del ”patto” è uno solo: le industrie hi-tech e dei contenuti hanno firmato una tregua nella battaglia che ha visto finora contrapposti gli uni nell’offrire strumenti sempre più versatili e potenti per la digitalizzazione dei contenuti e la loro diffusione, gli altri a presidiare manu militari la commercializzazione e le revenues di ogni singolo prodotto digitalizzato.

Un braccio di ferro che nascondeva una crisi più profonda, una crisi del mercato dell’intrattenimento a cui le aziende hanno pensato di reagire facendosi pagare ogni volta che ascoltiamo un brano musicale, vediamo un film, o scarichiamo un software, senza capire che è una battaglia di retroguardia, perchè attacca abitudini consolidate e libertà date per acquisite.
Se ci pensiamo solo un attimo ci accorgiamo infatti che siamo stati abituati a comprare un libro consci che avremmo potuto scambiarlo, regalarlo ad un amico, metterlo da parte e rileggerlo a distanza di tempo, finanche venderlo. Siamo stati abituati a comprare un disco di vinile a copiarlo in una cassetta e portarcelo al mare, e di recente invogliati dalla pubblicità a comprare masterizzatori e iPod per condividere la musica con gli amici o fare una copia di riserva di una cosa che poteva rovinarsi.

Adesso ci dicono che non lo possiamo fare più. Perchè la copia digitale è sempre più facile, veloce, fedele, realizzabile in quantità illimitata e trasferibile a distanza con internet. Col risultato che se possiedi un computer e una connessione veloce a Internet sei considerato un pirata potenziale. Un’idea che fa a cazzotti con la comune consapevolezza che se produrre contenuti costa, riprodurli no, e quindi è giusto, per molti è giusto, fare la cresta sui prezzi esorbitanti di musica, filme software. La crociata contro la riproduzione casalinga, personale, di opere protette segna una vittoria di chi voleva trasformare Internet in una piattaforma commerciale attraverso cui erogare contenuti a pagamento, con la scusa che la digitalizzazione di massa danneggia aziende e mercati.
Eppure i sistemi di riproduzione hanno sempre avvantaggiato gli editori. E’ successo con il Vcr, e oggi vhs e dvd vendono più che al botteghino. Autori ed editori, dicono che la copia digitale, abusiva e illegale produce miliardi di euro di danni in termini di mancate vendite e minori introiti per lo Stato e non considerano che il comportamento dei consumatori è cambiato. Copiare opere protette è una strategia di resistenza alle barriere d’accesso alla cultura.

Eppure anche per gli investigatori anti-frode la duplicazione digitale per le sue proporzioni non può essere fermata, “è un fenomeno sociale facilitato dalla tecnologia”, perchè “nel momento in cui puoi leggere un formato digitale lo puoi anche copiare, anche se prima forse devi aggirarne le protezioni”. Perciò è noto che l’uovo di colombo per combattre la pirateria è di rendere antieconomica la duplicazione di copie illegali e rendere vantaggioso l’acquisto di copie legali. Oggi ci sono le licenze giuste per farlo, creative commons e Gpl, e alcune paesi, come il Brasile, viaggiano speditamente in questa direzione. Ma di questo nelle linee guida non c’è traccia.