Prometeo non abita su Internet

ARTURO DI CORINTO
Il Manifesto – 05 Dicembre 2001

Il software libero, il diritto d’autore, l’attivismo digitale e le nuove norme restrittive della comunicazione on-line dopo l’11 settembre. Questi i temi della prima “conferenza italiana sulla legge del cyberspazio” tenuta a Bologna

Sabato primo dicembre i Linux User Group (Lug) di venti città italiane hanno festeggiato il Linux Day proposto dalla Italian Linux Society (www.linux.it). Insieme a loro, gruppi della telematica amatoriale, centri sociali e alcune associazioni di settore hanno celebrato la giornata del software libero e della libera scienza per dire che un altro mondo è preferibile alla mercificazione della conoscenza.
Non ci voleva Linux per capire che la produzione di strumenti e oggetti tecnici, di artefatti cognitivi, può seguire logiche diverse e opposte a quelle del mercato, ma questo sistema operativo rappresenta un esempio paradigmatico di quella economia della reciprocità, della gratuità e del dono, che è spesso il vero vettore dell’innnovazione. Almeno fino a quando qualcuno non ci mette sopra il suo copyright. Linux, infatti, è figlio di quella curiosità intellettuale, della voglia di fare insieme e di condividere problemi e soluzioni proprie della cultura hacker. La stessa che ci ha dato Internet, il World Wide Web, Usenet e la maggior parte dei programmi per computer che non si acquistano online e neppure nei negozi di informatica.
Anche gli avvocati se ne sono accorti, e sono stati “obbligati” a parlarne alla prima Conferenza italiana sulla legge e il cyberspazio – www.iclc.org -, promossa dalla “Rivista Scientifica Ciberspazio e Diritto” e dall’associazione Net-Jus, proprio per la portata dirompente che il software libero rappresenta per il diritto di proprietà.
Certo gli avvocati che lì si sono incontrati – uomini e donne, molti giovani e curiosi – esprimevano un interesse legato più alla presunta redditività di un settore, quello delle controversie legate alle transazioni on-line o all’appropriazione dei nomi a “dominio” e del diritto d’autore nell’era della riproducibilità tecnica, piuttosto che alle questioni etiche che esse implicano.
Però molti dei relatori hanno dato mostra della capacità di adattarsi all’interlocutore senza rinunciare a focalizzare il discorso sui limiti della rivoluzione digitale e sulle opportunità che essa apre in settori come la ricerca scientifica, la pubblica amministrazione e l’impresa virtuale, in termini di crescita culturale, autogoverno dei processi decisionali e tutela del consumatore.
Tuttavia, molto si è parlato di diritto societario e poco dei diritti dei singoli, ancor meno del ruolo degli avvocati come garanti delle libertà individuali, in primiis il diritto all’informazione, un diritto che dovrebbe essere sovraordinato alle esigenze del profitto. Un’occasione gravemente mancata in un momento in cui sarebbe necessario ridiscutere le regole del gioco piuttosto che limitarsi a interpretare le leggi secondo un approccio fortemente subordinato alla giurisprudenza anglosassone e alla situazione di crisi determinata dalle nuovi minacce del terrorismo globale, che ha prodotto ulteriori restrizioni delle libertà individuali e collettive.
Com’era da aspettarsi la parte del leone l’ha fatta Richard Stallman, l’informatico americano fondatore della Free Software Foundation e animatore del progetto Gnu (www.fsf.org). In due ore di “free speech” Stallman ha ribaltato tutta una serie di luoghi comuni a proposito del software libero, parlando di libertà, coscienza e responsabilità dei produttori/utilizzatori delle tecnologie dell’informazione, di fatto ipotecando la discussione della sessione su “Linux, open source e diritto”.
E qui occore fare chiarezza sui termini.
Open Source sono i programmi di cui è possibile leggere il codice sorgente, cioè il linguaggio di programmazione usato per creare il file manipolabile dall’utente. Altra cosa dal software libero che invece non solo te lo fa “vedere”, ma ti permette di copiarlo, modificarlo e distribuirlo con le eventuali modifiche apportategli e con il solo vincolo di dare al successivo “possessore” del software le stesse “libertà” con cui gli è giunto. “Software Libero” quindi non significa gratuito ma si riferisce appunto alle libertà citate e a qualcosa di più, cioè alla libertà di operare per il bene della collettività e l’avanzamento delle conoscenze, seguendo strade diverse da quelle della burocrazia, dell’autorità e del mercato.
D’altra parte Linux è il termine generico con cui è divenuto noto il software libero considerato alternativo al sistema operativo proprietario Microsoft Windows. Un sistema operativo è il programma che rende i computer qualcosa di più di un ammasso di ferraglia perché gestisce tutte le sue parti, i programmi applicativi e l’interazione dell’uomo con la macchina.
Un sistema operativo è fatto di tanti moduli e, nel caso di Linux sappiamo che la maggior parte di essi nasce e si diffonde gratutitamente ben prima che Linus Torvalds ne scriva il kernel che gestisce l’unità di calcolo e la memoria centrale. Il “kernel” è la parte più importante del sistema operativo, ma provate a usare un computer che abbia solo il “kernel” e vedete che succede. Semplicemente è inusabile.
Per questi motivi Stallman, con l’usuale vis polemica, ci ricorda che esiste una notevole differenza fra il movimento open source e quello del free software, e che l’opera di sciacallaggio delle aziende di software che lucrano sulla confusione di quelle definizioni serve loro per risparmiare sulla necessaria ricerca e sviluppo di nuovo software – in questo caso lo fanno gratuitamente altri – e creare una nuova nicchia di mercato per vendere pacchetti di programmi composti da software sottoposti al diritto proprietario e “free software”.
Questa digressione ci aiuta a dire due cose. La prima è che il finlandese Linus Torvalds non è il creatore di Linux, quanto il co-autore, insieme a tanti altri che senza alcun compenso, talvolta coi pochi fondi dell’università pubblica, da trent’anni a questa parte, condividono l’utopia di una informatica diffusa e popolare secondo i migliori principi della ricerca scientifica: la sperimentazione distribuita e parallela, la cooperazione, la condivisione di ogni nuova acquisizione, usando i criteri della trasparenza e della verifica dei risultati all’interno della comunità di appartenenza. (Della nascita di Linux e in quanto opera pubblica si può leggere il libro-intervista allo stesso Linus Torvald Rivoluzionario per caso, Garzanti editore). Cosa che appare particolarmente calzante per Linux dato che i suoi stessi utilizzatori ne verificano continuamente l’adeguatezza, segnalano problemi ed errori, propongono e votano soluzioni. La seconda è che quando si parla di Linux come “software libero” ci si riferisce a una particolare licenza d’uso con cui viene distribuito, la Gpl, General Public License, che ce lo fa nominare correttamente come Gnu/Linux, dal nome del progetto per cui questa licenza è stata pensata (www.gnu.org).
Forse non è un caso che a ridosso del “Linux Day” è stato diffuso il “Manifesto della Associazione delle Scienziate e degli Scienziati Responsabili” che “in qualità di gestori dei flussi di informazione attraverso le nuove tecnologie e come produttori diretti di conoscenza”, invitano tutti ad affrontare le questioni aperte del no-copyright e del “free software”, dell’etica e del ruolo della scienza e dell’importanza della ricerca di base. E’ quindi meglio sottrarsi all’apologia dell’individuo prometeico che porta il fuoco della conoscenza, perché, come diceva Einstein, “ogni invenzione è frutto della successione di numerose generazioni creative” e che per questo appartengono a tutti.