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“In odor di pedofilia”. Con questa accusa il Comune di Roma – pressato dalle destre – censura alcuni siti presenti sulla Rete Civica della capitale. La segnalazione era giunta da don Fortunato, il sacerdote da tempo impegnato nella lotta alla violenza sui bambini. Ma erano davvero siti “pedofili”? E a che cosa ci si riferisce quando si parla di pedofilia? Come fare in modo che la difesa dei più deboli non si trasformi in nuova caccia alle streghe? Ne parliamo con Francesca Da Rimini, l’artista australiana censurata dal Comune di Roma, e con don Fortunato di Noto. Che dice: “La libertà di espressione spesso serve a coprire le violenze”
ARTURO DI CORINTO – ROMA
Il Manifesto – 14 Ottobre 2000

” Pedofilia culturale strisciante”. Questa l’accusa che ha portato il Comune di Roma a chiudere la directory al gruppo Avana.net sulla rete civica comunale. L’accusa era stata lanciata da don Fortunato di Noto, il sacerdote da tempo impegnato nella lotta alla pedofilia, in particolare su internet. La denuncia ovviamente ha suscitato un forte scandalo: capirete, nei giorni immediatamente successivi all’affaire Lerner “scoprire” che il Comune di Roma ospita siti pedofili non è cosa da poco. In pochi, però, si sono chiesti che cosa effettivamente ci fosse su quella directory: nient’altro che un libro.
Il libro in questione – Lasciate che i Bimbi. Pedofilia: un pretesto per la caccia alle streghe, Castelvecchi – dal 1998 ad oggi è stato pubblicato in decine di siti internet, recensito da insigni professori universitari e regolarmente venduto nelle librerie, anche in quelle virtuali come Zivago.com. Non solo. Già vanta una vittoria giudiziaria contro chi ha accusato il suo autore di “abuso di critica”. Da un punto di vista sostanziale, quindi, mancherebbe il casus belli, ma la sola esistenza di questo materiale non linkato all’interno del server di romacivica.net è stata sufficiente a far sì che il capogruppo di An in Campidoglio chiedesse le dimissioni di Mariella Gramaglia, direttore del Comune, “per aver ospitato i pedofili sul sito del Comune”.
La vicenda è emblematica per come la sfera del politico l’ha utilizzata su entrambi i fronti. Da una parte, l’attacco di An sembra trovare la sua motivazione nell’esigenza della destra politica di pareggiare i conti con un centrosinistra che nelle ultime settimane aveva denunciato il carattere xenofobo di alcuni contenuti elettronici presenti sul sito di destra.it e alleanzanazionale.it. L’opportunità di attaccare il premier in pectore del centrosinistra, di cui la Gramaglia è stretta collaboratrice, è occasione troppo ghiotta in campagna elettorale.
Dall’altra parte il centrosinistra ha contestato la fondatezza della richiesta di dimissioni della Gramaglia perché gli spazi della rete civica sono gestiti dalle associazioni telematiche secondo norme di comportamento condivise. Ma se ciò è vero, censurando i materiali considerati offensivi il Comune unilateralmente considera che quelle norme sono state violate dalle associazioni. E ciò facendo contravviene agli accordi presi con le associazioni stesse. Queste infatti, e in particolare Avana, ribadiscono che il codice di autoregolamentazione prevedeva una discussione collettiva sulle azioni da intraprendere in caso di controversie relative all’uso degli spazi della rete civica. Una metodologia frutto dell’esperienza passata e della consapevolezza dell’impossibilità di sviluppare dispositivi giuridici per la limitazione dei contenuti: anche la Corte Suprema Usa ha qualche problemino nel dirimere la questione su quali contenuti presenti in rete possano essere considerati offensivi o indecenti.
Alla vicenda guardano ora con preoccupazione i gestori delle reti civiche di tutta Italia, perché lo “scandalo” romano coincide con il rilancio dei siti comunali favorito dalla riforma telematica degli Enti Locali e dalla nuova legge sulla comunicazione pubblica. I webmaster, i gestori dei Ced e i responsabili dei contenuti sentono il fiato sul collo di una caccia alle streghe che li induce al conformismo e alla censura preventiva. Fino a restringere sempre più gli spazi dell’interazione fra comuni e cittadini. Peccato, perché l’esperienza di un altro caso di censura avvenuto tre anni fa – quello del Foro Romano Digitale – avrebbe dovuto prevenire fatti simili. Al Comune sarebbe bastato dichiarare pubblicamente di svolgere la sola funzione di ente abilitante alla comunicazione fornendo il servizio gratuito di housing dei siti alle associazioni richiedenti e introducendo sul sito un disclaimer in cui chiarire che la responsabilità dei contenuti è solo e soltanto dei cittadini che gestiscono i siti della rete civica. Di più: avrebbe potuto consentire l’autogestione del sito romacivica.net da parte di tutte le associazioni. Dopotutto, proprio per questi motivi, un anno fa erano stati separati il sito istituzionale del Comune di Roma e il sito della Rete Civica, mettendoli addirittura su due server diversi e con differenti nomi di dominio. In questo modo il Comune avrebbe potuto non assumersi il ruolo di sceriffo della rete civica e lasciar decidere al popolo della rete, ed eventualmente alla magistratura, la liceità dei contenuti ospitati. Ci voleva tanto?