Respinta la direttiva sulla brevettabilità
Arturo Di Corinto
Liberazione 07-Luglio-2005
“Uno scatto di reni del Parlamento Europeo”, “ripristinata la democrazia in Europa”, “una grande vittoria della sinistra”. Questi i primi commenti a caldo fuori dell’assise di Strasburgo alla notizia della bocciatura della direttiva sulla brevettabilità del software. Una vicenda complessa che aveva visto scendere in campo i colossi americani del computer e i gli elettronici europei con tutta la loro forza di persuasione per mettere un altro bollino sul software, a stento contrastati dallo sforzo di molte realtà imprenditoriali, politiche e associative contrarie alla direttiva.
Ma la natura del provvedimento che minacciava di bloccare lo sviluppo della vagheggiata società della conoscenza basata sull’industria Ict e sulla libera circolazione del sapere, aveva sollecitato una mobilitazione dei cittadini europei di tali dimensioni che la politica non ha potuto ignorarla. C’erano state manifestazioni, dentro e fuori il parlamento europeo, una vasta campagna telematica di sostegno al rigetto della direttiva – con petizioni elettroniche e siti oscurati a lutto – conferenze, concerti, happening e cortei cittadini, a Bruxelles e Berlino, che avevano dato la dimensione dell’importanza della posta in gioco.
Dietro questa mobilitazione la consapevolezza di molti cittadini europei di vivere in un mondo globalizzato e interconnesso in cui il software, il linguaggio dell’innovazione, è un bene comune non appropriabile che deve essere accessibile per tutti, che migliora con lo scambio e con l’uso, e promuove trasparenza e democrazia solo quando soggetto al “controllo pubblico” che il brevetto avrebbe impedito, ma anche l’insofferenza per l’invadenza delle multinazionali che, come denunciato dagli attivisti del software libero, avevano scritto nei loro uffici la direttiva facendola recitare in parlamento alla socialista McCarthy.
La vittoria del no perciò sembra ridare fiato e speranza a chi vede nel Parlamento un consesso in grado di rappresentare la volontà popolare e non quella delle lobby. Eppure il risultato non era affatto scontato.
Nelle vicende che hanno accompagnato la discussione della direttiva, prima emendata, poi riproposta pari pari dalla Commissione europea in spregio al voto del parlamento, ci sono stati molti bizantinismi soprattutto fra chi si era posto nell’ottica della riduzione del danno considerando persa la battaglia e cercando da una parte di non alienarsi le simpatie di un elettorato che sulla vicenda ha dimostrato di essere informato e deciso, dall’altra di non scontentare le lobbies che finanziano le campagne elettorali e con cui siedono a fare le politiche industriali.
Perciò anche all’interno dei partiti dell’Unione non si era registrata per lungo tempo una posizione omogenea e ancora minore era l’accordo tra le diverse forze politiche, con l’area rosso-verde che ha tenuto la posizione più chiara, rigorosa e intransigente contro la direttiva, rimanendo spesso isolata, e tutto un pezzo del Pse e dell’Alde – di cui fa parte la nostrana Margherita – che in maniera ambivalente continua a sostenere l’importanza di regolare la materia anche se in modo diverso dalle ipotesi della direttiva. La stessa Margerita ad esempio, con argomentazioni deboli e talvolta caricaturali come l’idea di brevettare il software per favorire la competitività delle aziende europee rispetto a quelle americane – pronte a far valere un portafoglio brevetti che gli europei non possono certo vantare – ha messo in pericolo in Italia l’unità di intenti che si stava faticosamente creando in Europa.
A sbrogliare il nodo della matassa e a mettere d’accordo i vari gruppi era intervenuto il leader socialista francese Michel Rocard che aveva catalizzato le differenti posizioni dell’area progressista con argomenti più scientifici che politici illuminando sulla via di Damasco molti scettici e trovando l’apporto importante del centrosinistra italiano. Poi il colpo di scena, dopo le convulsioni di venerdì per i rumors che volevano liberali e popolari pronti a votare contro la direttiva e che avevano diffuso ampi sospetti fra verdi e comunisti sostenitori della proposta di bocciatura, il voto finale è giunto come una liberazione: 648 contrari, 14 favorevoli, 18 astenuti e la direttiva è stata silurata.
La faccenda non finisce qui. Il nodo non ancora sciolto riguarda la funzione dell’ufficio brevetti europeo. Jonas Öberg, vice-presidente della Free Software Foundation Europe, a questo proposito ha dichiarato: «Questa decisione riconferma la Convenzione Europea sui Brevetti (EPC) del 1973, la quale escludeva il software dalla brevettabilità. L’Ufficio Brevetti Europeo (EPO) ha abbondantemente ignorato tale convenzione garantendo approssimativamente 30mila brevetti software negli anni passati: tutto ciò deve finire oggi. All’EPO non deve essere più permesso di ignorare ulteriormente le linee politiche europee.»
Tirare le somme della vicenda non è semplice. Le major del software apparentemente ne escono con le ossa rotte, i funzionari che ci hanno lavorato non portano a casa niente e qualche mal di pancia resta perfino dentro l’Unione dove tutti ora si affrettano a rivendicare il successo del voto. Dal canto suo la Commissione europea dice di volere rispettare il voto del parlamento, annunciando che non presentaerà una nuova proposta in materia.
Adesso però è necessaria una vera politica europea, in grado di rilanciare i temi dell’agenda di Lisbona e di favorire ricerca, innovazione e competitività nel campo della produzione immateriale. Forse è ancora presto per dire che è stato recuperato il pericoloso scollamento fra rappresentati e rappresentanti, ma oggi intanto possiamo brindare a un’Europa più unita, in nome del software.