La Repubblica

Ci vuole una Bretton Woods per il Bitcoin

La gente comune usa ormai le cryptomonete per gli scopi più disparati e i governi di tutto il mondo stanno cercando soluzioni per consentirne uno sviluppo ordinato utile alla creazione di nuovi modelli di business. Con una battuta d’arresto possibile: Cina e Stati Uniti dialogano per mettere al bando le cryptovalute ritenute una minaccia per il sistema finanziario globale. Tema su cui non hanno una posizione definitiva e concorde.

Quando il 5 Ottobre il bitcoin ha superato la soglia psicologica dei 50mila dollari (oggi è ben oltre quota 60mila), tornando ai valori dell’annuncio salvadoregno, un report di Bank of America ha cambiato le carte in tavola: gli analisti incaricati del rapporto hanno scritto che “le opportunità possono essere superiori a quelle che si attendono gli scettici”.

A ogni modo mettere le cryptovalute fuorilegge sarebbe un risultato difficile da conseguire per la natura stessa della blockchain e delle monete digitali che vivono grazie ad essa, ma che intanto ha condotto la Banca Centrale Cinese a chiedere un chiedere un bando alla loro produzione e diffusione.

Ma i problemi non finiscono qui per il mondo digitale nato dall’inventiva di Satoshi Nakamoto che voleva una moneta elettronica per rivoluzionare il mondo degli scambi globali.

Il 23 settembre un attacco informatico ha compromesso il sito bitcoin.org rimpiazzando l’intero sito con una truffa che prometteva bitcoin gratuiti. Era già successo con l’hackeraggio dei profili Twitter di Gates e Obama, ma ogni giorno si registrano truffe e denunce legate al mercato delle cryptomonete. In agosto c’è stato un furto di 600 milioni di dollari di bitcoin, in parte restituiti, maggiore di quello da 400 milioni che aveva colpito la piattaforma di scambio giapponese Mt.Gox nel 2014. Che sta succedendo?

FURTI DIGITALI

Succede che mentre un tempo i ladri rubavano oro, contante e gioielli, oggi rubano codici crittografici che rappresentano monete virtuali. E così si moltiplicano crypto-malware, truffe e raggiri via social per ottenere le chiavi private e aprirne i wallet, i portafogli virtuali dentro cui sono contenute le monete digitali.

Ma intanto prima era successo che qualcuno aveva rubato le macchine informatiche necessarie a creare i bitcoin, la moneta digitale per antonomasia. Poiché questa moneta non viene “coniata” da banche o enti centrali, ma grazie a un algoritmo residente su computer attraverso il mining, un complesso insieme di calcoli matematici, chi voleva rubarli, rubava la potenza computazionale per produrli.

Era successo nel 2018 in Islanda, e la colpa fu attribuita al custode infedele di una moneyfarm, una fabbrica di monete virtuali, da cui sparirono nel giro di una notte 600 schede grafiche e altro hardware necessario per il mining della cryptomoneta. Poi si scoprì che gli autori erano più d’uno e che i furti erano stati diversi.

Fonti mai verificate hanno sostenuto che quelle macchine erano finite in Cina dove qualcuno pensava di arricchirsi creando cryptomonete approfittando della scarsa regolazione e del basso costo dell’energia nel paese. Oggi, nel 2021, però tutti sono in fuga dalla decisione della Banca Centrale Cinese di mettere fuorilegge le cryptovalute e il percorso si è fatto inverso. Le aziende che producono crittomonete stanno provando a riportare le loro attrezzature in occidente, verso Stati Uniti, Canada e Scandinavia. I costi dello shipping, triplicati con la pandemia, rendono diseconomico riportare via mare nei container le schede grafiche e le attrezzature per il mining di crittomonete dove la loro produzione è ancora profittevole. Per questo le aziende che gestiscono le moneyfarm per “minare” le crittomonete puntano a paesi caucasici dove l’energia costa poco e a creare partnership con le centrali nucleari che non riescono a vendere i loro stock energetici.

COME SI PRODUCONO I BITCOIN

Spieghiamolo meglio. Il processo per l’emissione di nuovi bitcoin si chiama “mining” per un’analogia con l’estrazione dell’oro ma in realtà è un processo che utilizza la potenza di calcolo dei computer per elaborare le transazioni su blockchain, rendere sicura la rete e mantenere tutte le operazioni sincronizzate nel sistema open source che le registra in una logica paritaria o peer to peer. La produzione di bitcoin è un effetto collaterale di questo processo, di cui di fatto rappresenta la ricompensa.

A differenza dell’estrazione dell’oro, quindi, la produzione di bitcoin è una sorta di premio in cambio di servizi utili al funzionamento di una rete di pagamenti sicuri, il motivo all’origine dell’invenzione di Bitcoin, e per questo sarà comunque necessario anche dopo che l’ultimo bitcoin sarà stato estratto.

E tuttavia, i minatori che vogliono solo questo oro digitale, indifferenti alla funzionalità della rete di scambio, decidono se estrarlo oppure no quando conviene: se il prezzo del bitcoin è basso e i costi del mining sono alti, possono smettere di farlo. Per questo operano secondo una logica di scala e vanno a minare le monete nei paesi dove il clima freddo e il basso costo dell’energia lo rendono profittevole.

Tanto per fare un esempio e capirci, se minare un bitcoin costa 8000 dollari e il suo valore di scambio è di 11.000 può valerne la pena, ma se costa di più chi paga le bollette di un processo da tutti considerato energivoro per la quantità di corrente elettrica che consuma?

PREZZI ALLE STELLE

Negli ultimi mesi bitcoin e tutte le altre cryptovalute però sono state sulle montagne russe del valore, con prezzi che salivano e scendevano a seconda degli andamenti del mercato influenzati da eventi politici ed economici. Continuerà ad accadere.

In questi anni abbiamo assistito a un aumento vertiginoso del numero delle cryptovalute esistenti, ne sono state contate circa 6000, con bitcoin ed ether ai primi posti. Ma quello che sbalordisce sono stati gli aumenti del valore di mercato del bitcoin. Oggi un singolo bitcoin vale $63.000 dopo aver toccato il picco di quasi 65 mila dollari, a metà luglio era di circa $30mila. Insomma, niente male per una moneta il cui valore iniziale è stato fissato sulla base del costo di due pizze al pomodoro.

Dietro a queste impennate di prezzo ci sono state delle decisioni di carattere commerciale e speculativo – si pensi ai tentennamenti di Elon Musk circa la possibilità di comprare le sue Tesla usando cryptomonete – ma anche i rapporti delle Nazioni Unite che hanno evidenziato come esse siano usate dai cyber-criminali basati in Iran e Russia per pagare attacchi informatici o per riciclare denaro e finanziare il programma nucleare nord-coreano di Kim Jong Un.

Infine, venendo al boom degli attacchi ransomware dei nostri giorni, la richiesta di riscatto in moneta elettronica avanzata da sedicenti hacker nei confronti di aziende, stati e organizzazioni per “liberare” i dati crittografati con i loro ransomware ha indotto molti a ritenere che “probabilmente senza le cryptomonete questo fiorente mercato illegale non esisterebbe” come ha dichiarato a Italian Tech, il famoso esperto di cybersecurity Bruce Schneier.

Eppure sono molte le organizzazioni non governative che si battono per la privacy come la Electronic Frontier Foundation e contro la corruzione come Wikileaks che accettano donazioni in bitcoin per conseguire giustizia e trasparenza senza bandiere.

L’utopia di Satoshi Nakamoto, il presunto inventore del Bitcoin – chiunque sia, una persona fittizia, un ente governativo o un gruppo di alieni – di creare un sistema di pagamento frictionless tra pari per aggirare le imposizioni delle Banche Centrali, per ora sembra “unstoppable”, anche se un tribunale inglese ha ordinato di rimuovere da Bitcoin.org il white paper che ha sancito la nascita dei bitcoin e firmato da Satoshi Nakamoto, su richiesta di Craig Wright, la persona che a più riprese ha affermato di esserne l’inventore.

Comunque sia, le cryptovalute stanno cambiando il mondo e per questo sono sotto osservazione da tutti gli organismi di vigilanza, tanto che il primo ottobre, durante un convegno a Cagliari il presidente della nostra Consob, il professore Paolo Savona, ha detto che è ora di pensare a una nuova Bretton Woods per affrontare a livello globale i problemi posti dalle cryptovalute, in quanto “Le criptovalute creano potere d’acquisto e influenzano consumi, investimenti, esportazioni e importazioni e stanno diventano materia di conflitto tra gli stati e allentando la cooperazione internazionale, economica e politica, proprio quando aumenta il bisogno di governare un mercato mobiliare che si trasferisce nell’infosfera”.