La Repubblica: Internet, la censura cinese si spinge oltre: vietate le chat nei telefonini

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Dalle backdoor nei sistemi operativi fino alle cimici elettroniche. I controllori di Pechino adesso vietano l’uso di WhatsApp e Telegram e ne chiedono la rimozione dai telefonini

di ARTURO DI CORINTO per La Repubblica del 11 Gennaio 2016

 

“PREGO favorisca i documenti e anche lo smartphone”. “Perché usa Telegram?”. “Mi segua al comando”. In Cina chi usa i software per la messaggistica cifrata è trattato come un potenziale terrorista. Ai posti di blocco possono fermarti e ispezionare il telefonino per cercare le “prove” di una possibile attività sovversiva.

Sugli strumenti che usa la censura per impedire alle persone di esprimersi credevamo di averle viste tutte, ma non è così. E la delusione è ancora più forte se pensiamo che non bastano più neppure i software-rifugio come WhatsApp e Telegram per comunicare al riparo dello sguardo del Grande Fratello. La Electronic Frontier Foundation, da sempre impegnata sul fronte della difesa della privacy, denuncia l’ultima pratica della censura cinese: la richiesta di rimozione di software sicuri dal proprio telefono per potere monitorare l’uso che di essi viene fatto dai possessori.

Nella provincia dello Xinjiang alcuni residenti si sono visti interrompere improvvisamente il servizio telefonico e, dopo le ovvie proteste, sono stati invitati dai propri fornitori di telecomunicazione a rivolgersi alla polizia locale che, contattata, ha brutalmente dichiarato che erano stati scoperti a usare delle VPN, le reti private virtuali, o a scaricare software per la messaggistica sicura. Per riavere la connettività i cittadini avrebbero dovuto rimuovere i software in questione.

Lo Xinjiang, casa della minoranza musulmana Uigura era già nota come laboratorio avanzato della repressione statuale anche su Internet, una repressione che aveva portato in carcere blogger e giornalisti. Nel 2009 le autorità cinesi erano arrivate a isolare tecnicamente una porzione molto vasta di questo territorio per impedire le comunicazioni tagliando fuori dalla rete sei milioni di utenti Internet con un “provvedimento di interruzione delle reti” (kill switch).

Negli anni, per aggirare la muraglia virtuale cinese, i cittadini avevano cominciato a usare vari strumenti per aggirare la censura, come lo scambio di penne Usb o di cd-rom, e poi, con la diffusione degli smartphone erano approdati a software come Telegram e WhatsApp. Adesso non possono più farlo.

Insomma al peggio non c’è mai fine. Se questi fatti testimoniano l’enorme capacità di sorveglianza degli organi cinesi di polizia, non si era mai arrivati a censurare dei software al posto degli specifici contenuti della comunicazione fatta con quei software. E questo in assenza di prove di un loro uso illegittimo.

Ma il fatto più grave è che adesso la polizia arriva a chiedere di visionare i telefonini durante le ispezioni ai posti di blocco autostradali e, se ci trovano un software di anonimizzazione o di cifratura, lo possono anche sequestrare. Ma solo se sei di etnia Uigura, perché questo fa del proprietario un soggetto doppiamente pericoloso: potenzialmente sovversivo per ragioni etniche, sicuramente criminale perché usa Skype o WhatsApp.

Secondo la EFF, quindi, alla censura cinese non bastano più le backdoor nei software di uso comune e nei sistemi operativi nazionali, e non basta neppure mettere fuorilegge la crittografia, adesso vogliono impedire il possesso di software d’uso generico, a pure di scaricarlo dalla rete. E avverte, la pratica potrebbe presto estendersi a tutti i cinesi.

Reporters Sans Frontieres ha appena pubblicato il World Press Freedom Index. Il rapporto vede la Cina in fondo alla classifica della libertà di stampa e d’informazione, al 176esimo posto su 180 paesi monitorati, prima solo di Siria, Turkmenistan, Corea ed Eitrea.

 

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