Roma ha ospitato la prima festa dei pirati

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Roma ha ospitato la prima festa dei pirati
Di Arturo Di Corinto |30 marzo 2009 |Categorie: Cultura | Galleria fotografica

Condivido ergo sum. Condivido, perciò sono. Questo il messaggio lanciato dalla festa dei pirati che si è tenuta a Roma sabato scorso nei sotterranei di una vecchia chiesa, all’interno del Teatro delle Arti, dove un centinaio di hacker, attivisti, avvocati, appassionati del file-sharing, hanno proseguito un dibattito lungo dieci anni per discutere se sia lecito oppure no scambiarsi materiale protetto da copyright, alla luce del sole o nelle darknet di Internet.

L’idea di una “Festa dei pirati” è stata di Luca Neri, giornalista fiorentino adottato da New York, che per Cooper Editore ha scritto il libro “La Baia dei pirati. Assalto al copyright” e che nella breve permanenza romana ha coinvolto la galassia dei filesharers nostrani per discutere in maniera provocatoria della fine del copyright. L’idea alla base del libro è che se il traffico di internet è ormai generato per due terzi da protocolli peer to peer, da milioni di “onesti” cittadini che si scambiano fra loro ogni tipo di file, probabilmente c’è qualcosa che non va nella legge che tutela la proprietà intellettuale della musica, dei film, dei libri, dei sequel televisivi. Per Luca Neri è inutile girarci intorno: nel mondo ci sono milioni di persone che, consapevoli o no, rifiutano la legittimità morale del copyright e anche i suoi presupposti economici.

La conseguenza per i “pirati” è che se una legge non riflette i costumi di un popolo probabilmente è sbagliata e va cambiata.

Magnus “monki” Ericksson e Johan “kringell” Allgoth, della Baia dei pirati, star della festa, la pensano così: “Non ci interessa solo condividere quello che le persone creano, ma aprire un dibattito all’interno della società svedese su cosa è legittimo e cosa non lo è.” “Noi pensiamo – dice Magnus – che il copyright come tema politico derivi da una questione tecnologica”. “La tecnologia ha cambiato la cultura, l’economia e la società. Le leggi sul copyright sono di un’altra era, perciò se proprio ce le vogliamo tenere, vanno cambiate”.

Ma non tutti alla Festa dei pirati la pensano così. A cominciare dai cosiddetti “releasers”, che nelle parole dei rappresentanti di TNT Village rivendicano il fatto che la molla della condivisione sia qualcosa di così profondo che è inutile combatterla. La condivisione di file è “un atteggiamento di carattere infantile”, “ludico”, ma anche “di cooperazione, di competizione, di rivalsa nei confronti di chi vuole tenere sotto chiave la cultura e i suoi prodotti”. E quelli che lo fanno, dicono, “non si pongono neppure da lontano il problema se passarsi film e musica sia reato oppure no”.

Per molti il filesharing sarebbe la reazione al tentativo di monetizzare la tecnologia digitale visto il suo successo nel creare stili, abitudini comunità. Dice Marco Scialdone: “Perché non si sente mai dire che bisogna disconnettere i pedofili, ma si vuole che la decisione della commissione Olivennes di disconnettere chi scarica musica senza pagare debba fare scuola in Europa?” “Insomma è una questione di valori o di mero valore?”

Gli fa eco un altro avvocato, molto attivo nel dibattito italiano, Guido Scorza: “la scelta di avere un comitato contro la pirateria digitale in Italia è originata da un presupposto: il file sharing causa danni economici per due miliardi di euro l’anno. Sono andato a vedermi i dati delle associazioni di categoria, della Fimi, della Fapav e di altri. Se la matematica non m’inganna, la riduzione del fatturato è di soli 50 milioni di euro l’anno. E questa riduzione di fatturato, da un punto di vista sociologico non può dipendere solo da chi ruba la musica”.

Carlo Blengino, penalista, collaboratore del centro Nexa di Torino, sposta completamente il discorso e fa un’affermazione forte: “È’ inaccettabile che per difendere i diritti economici di pochi soggetti si possano violare altri diritti parimenti importanti come quello alla privacy”. Blengino, che si è occupato del caso Peppermint, quando una piccola casa discografica tedesca aveva minacciato sanzioni civili e penali accusando i destinatari delle loro lettere di essere dei “pirati” e offrendogli l’immunità dietro il pagamento di un congruo rimborso, è uno di quelli che sostiene che l’unico modo per uscire dalla crisi è di proteggere i cittadini facendo circolare più idee, cultura e conoscenza.

Come lui, il magistrato drammaturgo Gennaro Francione è convinto che i politici non capiscano un tubo di quello che sta succedendo e invita tutti alla rivolta contro il copyright, “una cosa vecchia che neppure gli artisti dovrebbero più volere”, “visto che dalla circolazione senza limiti delle loro opere acquistano fama e celebrità che poi possono rivendere sotto forma di biglietti, merchandising, e altre performance dal vivo”.

Se tutti erano d’accordo nel condannare una classe politica affetta da mania regolatrice (vedi le ultime proposte di cui abbiamo scritto su Wired), largamente incompetente e senza l’autorità morale per intervenire nella vita privata degli utenti di Internet, le perplessità fra i “pirati” non mancano.

Mentre gli artisti presenti alla festa si chiedevano come guadagnare dalle loro opere se non si tutela il copyright, altri, gli hacker veri, quelli della prima ora, si chiedevano: “ma quanti danni fa alla rete (intesa come infrastruttura di trasporto dati, ndr) il filesharing compulsivo di contenuti di intrattenimento di basso livello?”. “Perché aiutare le major a far circolare i loro prodotti per addormentare il pubblico?”. “Non sarebbe ora di occuparsi di cose più serie come l’Ipv6, la privacy o le tecnologie di multicasting?”, ha detto Hantarex. “Che vuol dire il no-copyright? Noi da sempre mettiamo le nostre ricerche e i software che creiamo nel pubblico dominio o sotto GPL”. È questa, secondo “Anarkia”, uno degli hacker romani più famosi, la vera frontiera del dibattito. Mettere tutti in grado di creare e di condividere i risultati dell’intelligenza creativa, facendo a meno di aziende, editori e intermediari.

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