Wired: L’innovazione non è un pranzo di gala

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Il premier Renzi è andato a studiare il modello della Silicon Valley. Ma l’Italia non sarà mai la California

Arturo Di Corinto per Wired, 24 settembre 2014

Matteo Renzi è andato a visitare la Silicon Valley. È stato a Stanford, l’Università della Ivy League che da mezzo secolo fa da perno all’egemonia tecnologica americana e dove sono stati creati il primo accelleratore lineare, la pillola anticoncezionale, inventato Microsoft Word 1997 e le licenze Creative Commons nel 2001, e che ha dato direttamente e indirettamente i natali a Google, Amazon, e­Bay, i big player del mercato immateriale del XXI secolo. All’Università ha cenato con imprenditori e scienziati invitato dal presidente John Hennessy alla presenza di due ex segretari di stato come George Schultz e Condoleeza Rice (già rettore dell’Università californiana alla fine degli anni 90′), e davanti a loro si è impegnato a investire nell’innovazione tecnologica in Italia.

Allo Yacht club di San Francisco – la patria di Wired ­ ha invece incontrato i responsabili di circa 150 start­up italiane/americane della Silicon Valley ringraziandoli per voler cambiare il mondo come lui ma non invitandoli a tornare. Renzi ha fatto bene ad andare in Silicon Valley, ma non c’era bisogno di invitare i nostri oriundi di maggior successo a rimanerci, non tornerebbero mai: non gli conviene.

Nonostante la buona volontà infatti non c’è in Italia un posto come la Silicon valley e dei buoni politecnici e dei parchi scientifici e tecnologici di cui l’Italia è piena non si accorge quasi nessuno. E non se ne accorge nessuno perché se il capitale umano non ci manca l’Italia difetta di tutte le condizioni che hanno reso la Silicon Valley quella che è.

Innanzitutto lo spirito della frontiera americano che innerva inconsapevolmente chiunque lì ci vive, e che lo porta a sfidare i limiti suoi e quelli imposti dall’ambiente, unito a un fortissimo senso di precarietà esistenziale (terremoti, competizione e welfare risicato), che se porta tutti a impegnarsi in una rat race reale e virtuale, spesso si traduce nell’ansia di vivere pienamente il quotidiano alla ricerca costante del next big thing. Senza paura di fallire.

La Silicon Valley non a caso è il luogo paradigmatico delle tre “T” del sociologo e filosofo Richard Florida: Talento, Tolleranza, Tecnologia. I soldi che circolano veloci, l’alto livello di qualità della vita, buone università, ottimi ospedali, luoghi di svago, rispetto per la diversità e buone opportunità di occupazione, attirano talenti. La presenza di un’università come Stanford che imprime il suo marchio al territorio, associazioni storiche per i diritti civili, una presenza forte e strutturata delle comunità GLBTQ (gay­lesbian­bisexual­transgender­queer), un passato di lotte sociali (ricordate il sindaco Moscone e Harvey Milk?), e comunità organizzate su base etnica, “obbligano” a praticare la tolleranza. E infine la tecnologia, da sempre spinta dalle commesse militari e dal surplus prodotto da queste ultime che finisce in investimenti diversificati per ogni azienda beneficiata.

Ecco, queste tre T, son tutte lì, e producono effetti di sistema peculiari: le università fanno tanta ricerca di base, senza la spada di Damocle di doverla finalizzare a uno scopo preciso finché non si entra in azienda; imprese e centri di ricerca universitari, pubblici e privati, che si scambiano continuamente informazioni e talenti in base a protocolli definiti a priori; aziende di capitali di rischio che finanziano tutte le idee che superano il vaglio rigoroso di business plan prodotti dal lavoro congiunto di creativi e analisti finanziari, ma anche la certezza del diritto e il contributo dello Stato e delle comunità locali a garantire un ambiente certo per gli investimenti.

L’Italia non è la Silicon Valley. Potrebbe diventarlo favorendo la necessaria osmosi fra il mondo dell’università e della ricerca, dell’impresa e dei capitali, delle comunità e delle municipalità, per utilizzare al meglio il patrimonio di conoscenze e di competenze che in questi sistemi spesso incomunicanti, circolano. Ma non basterebbe senza una seria riforma della Pubblica Amministrazione e della giustizia, una lotta senza quartiere alla corruzione e all’evasione, un classe politica all’altezza e un po’ più di fiducia in noi stessi e nel futuro.

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