Cybersecurity: cosa spaventa gli addetti ai lavori

Cybersecurity: cosa spaventa gli addetti ai lavori

Hacker’s Dictionary. Un rapporto pubblicato da Federprivacy rivela che la maggioranza dei DPO teme principalmente le minacce ransomware e gli hacker, insieme alla possibile diffusione di informazioni sensibili successivi un data breach

di Arturo Di Corinto per Il Manifesto del 13 Ottobre 2022

I passeggeri neanche se ne sono accorti, ma nel corso della settimana il gruppo di hacktivisti filorusso Killnet ha rivendicato l’interruzione del funzionamento di mezza dozzina di siti web di aeroporti statunitensi. In effetti alcuni attacchi DDoS (Denial of Service) hanno reso inaccessibili per qualche ora i siti di aeroporti come LaGuardia di New York, il Los Angeles International e il Midway di Chicago.

Questi attacchi, a parere degli analisti, non sono rilevanti, ma servono a creare paura e sconcerto negli utenti lasciando presagire altri attacchi più pericolosi. Però si tratta soprattutto di un attacco alla reputazione delle compagnie coinvolte, un tentativo di screditarle agli occhi del pubblico. É già successo con l’infrastruttura informatica di JPMorgan Chase & Co. e con la Coca Cola: entrambe hanno chiarito di non aver sofferto conseguenze dagli attacchi, veri o presunti che fossero. 

Anche per John Hultquist di Mandiant gli attacchi DDoS raramente influiscono sulle operazioni di un’azienda e non hanno conseguenze sui dati sensibili, però gli hacker in questo modo ricevono l’attenzione del pubblico. E ottengono altri effetti spesso sottovalutati. 

In un rapporto pubblicato da Federprivacy a seguito di un sondaggio condotto su 1.123 professionisti italiani che ricoprono il ruolo di Data Protection Officer (DPO) in imprese private e PA, è emerso che il 76,7% degli intervistati ritiene molto probabile che prima o poi dovrà affrontare un’emergenza. Il 70,4% di loro tuttavia teme principalmente le minacce dei ransomware e gli attacchi hacker, mentre il 79,3% è preoccupato per la possibile diffusione di informazioni sensibili che potrebbe verificarsi a seguito di un data breach.

Per il 70% dei Responsabili della protezione dei dati, l’emergenza potrebbe scattare a causa della sottovalutazione dei rischi, per misure di sicurezza insufficienti, per l’impreparazione o l’incompetenza del personale che tratta i dati personali (64%), oppure per un errore umano (56,5%). 

Inoltre, il 77,6% degli stessi intervistati ammette di temere che a seguito di una situazione critica gestita male il management potrebbe dargli la colpa.

Un terzo degli intervistati (30,7%), infine, vede il pericolo nei malfunzionamenti di strumenti informatici o nei sistemi di intelligenza artificiale che comportano decisioni automatizzate, e teme gli errori di un fornitore esterno (29,7%) a cui sono stati affidati i dati dell’azienda. É probabilmente questo il motivo per cui più della metà (55,3%) dei professionisti intervistati ritiene necessario acquisire specifiche conoscenze nel campo della cybersecurity.

Un modo per ridurre questi timori c’è. Fare investimenti mirati nella sicurezza informatica aziendale. Ma come?

Partendo dall’assunto che nessuna singola società di servizi, nessun gestore di infrastrutture, ha risorse sufficienti per proteggere l’intera rete di interconnessioni su cui si basa, i ricercatori della Purdue University, hanno sviluppato un algoritmo per creare la mappa dei rischi, minizzare l’errore umano, decidere quali aree proteggere prima e meglio, e quando fare i backup necessari a ripristinare i servizi compromessi dopo un attacco ransomware.

I ricercatori hanno testato l’algoritmo simulando attacchi realmente avvenuti contro una smart grid, un sistema di controllo industriale, una piattaforma di e-commerce e una rete di telecomunicazioni basata sul web: in tutti i casi l’algoritmo si è rivelato capace di allocare in maniera efficiente gli investimenti di sicurezza per ridurre l’impatto di un attacco informatico.

Il Manifesto: Al comune di Roma la privacy è un’optional

Al comune di Roma la privacy è un’optional

Hacker’s Dictionary. La Capitale non ha un Data Protection Officer per tutelare la privacy e i dati personali dei cittadini-utenti, ma le nostre regioni non stanno meglio. Lo dice un rapporto internazionale cui ha partecipato anche l’Autorità italiana guidata da Antonello Soro

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 7 Marzo 2019

Il Comune di Roma si è dotato di un esperto di bitcoin ma non di un Data Protection Officer, il “difensore della privacy” previsto dal nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali nota come GDPR. Il funzionario precedentemente incaricato di assolvere a questa delicata funzione è andato in pensione a dicembre e non è ancora stato sostituito. Eppure ogni modulo scaricabile dal sito comunale riporta i riferimenti telefonici ed email per contattarlo, pur senza riportarne il nome.

Il mancato adeguamento alla nuova normativa sulla privacy non è un problema solo della capitale d’Italia. In seguito a un’indagine svolta da 18 garanti europei, sono molto le realtà che su questo fronte arrancano. Continua a leggere Il Manifesto: Al comune di Roma la privacy è un’optional