Il Manifesto: Le credenze sono più pericolose degli hacker russi

Le credenze sono più pericolose degli hacker russi

Hacker’s dictionary. Bufale e chatbots, sono diventati il perno di campagne di disinformazione per influenzare gli orientamenti degli elettori e dei decisori pubblici. La fake society è già qui

di ARTURO DI CORINTO per Il Manifesto del 23 Agosto 2018

Tre giorni fa l’allarme di Microsoft attraverso il New York Times di un nuovo Russiagate in prossimità delle elezioni di Midterm negli Usa, poi la notizia delle espulsioni di profili fasulli da Facebook e Twitter: la minaccia alle democrazie occidentali sembra passare dal web.

Facebook ha in effetti rimosso 652 fra pagine, gruppi e profili ritenuti al centro di una campagna di disinformazione mirata alla condivisione di materiale a sfondo politico; Twitter ha sospeso 284 account, molti dei quali originati in Iran, per timore della «manipolazione coordinata» delle opinioni dei suoi utenti; Microsoft ha dichiarato invece di avere individuato e bloccato un complesso tentativo da parte dei russi di influenzare il voto Usa di novembre attraverso furti di informazioni condotti con una campagna di phishing e siti fasulli ai danni della destra conservatrice.

Ma perché tanto allarme? Informazioni riservate, fake news e chatbots, sono diventati il perno di campagne di disinformazione per influenzare gli orientamenti dei cittadini elettori e dei decisori pubblici. La manipolazione delle percezioni non è un fenomeno nuovo, però, grazie al web e ai social media in questi anni è stata in grado di inquinare il dibattito pubblico, delegittimare le Istituzioni, mettere in discussione verità scientifiche date per acquisite.

Famose le bufale della Brexit con la notizia delle false accuse a Cameron di aver avuto rapporti sessuali perversi, quella dell’appartenenza di Hillary Clinton a un giro pedofilo che si incontrava nel sottoscala di una pizzeria dell’Indiana, di Papa Francesco che sosteneva Trump come presidente e di WikiLeaks che testimoniava la vendita di armi all’Isis da parte di Hillary Clinton.

Notizie che hanno avuto un numero di click superiori ai reportage di testate giornalistiche come il Post, il New York Times, il Guardian, tanto che Katharine Viner, direttrice di quest’ultimo, a proposito delle presidenziali americane aveva detto che si era trattato delle «prime grandi elezioni dell’era della post-verità». Le elezioni della bolla, quella che ci costruiamo ogni volta che interagiamo con chi già la pensa come noi, tenendo fuori dalla nostra comfort zone chi minaccia le nostre convinzioni; una bolla prodotta dagli algoritmi che ci offrono solo quello che abbiamo scelto in precedenza: amici, articoli da leggere, prodotti da acquistare. Ma, secondo Adam Curtis, giornalista della Bbc autore del documentario Hypernormalisation, noi abbiamo sempre vissuto dentro una “bolla”, una società fasulla, una fake society.

Hypernormalisation è la traduzione inglese di un autore russo, Alexey Yurchak, che usava quel concetto per indicare come nell’Unione Sovietica, anche se tutti sapevano che i leader mentivano, continuavano a credergli. Erano così immersi nel sistema della propaganda di regime che non erano neanche capaci di pensare a una vita diversa. Oggi l’Urss non esiste più ma in un mondo globalizzato da Internet e dal web – l’ambiente di coltura di bufale e verità alternative – la fake society si presenta come un palcoscenico dove la maggior parte delle persone non è più in grado di distinguere le notizie vere da quelle false, e dove quello che conta è la rappresentazione della realtà che ognuno di noi si costruisce.

Secondo il filosofo Maurizio Ferraris bufale e verità alternative sono basate sulla tendenza innata degli esseri umani ad «avere sempre ragione» e in questo senso sono più pericolose di troll, bots e profili fake, più degli hacker russi o iraniani.