di ARTURO DI CORINTO per Il Fatto Quotidiano del 23 Giugno 2018
“La tecnologia apre le porte, la politica le chiude”. Stefano Rodotà amava cominciare con citazioni come questa i suoi discorsi sui temi della privacy, della sicurezza dei dati, dell’innovazione tecnologica. Ma non voleva dire che con la scusa dell’innovazione si potesse accettare qualsiasi cosa, anzi, considerava missione della politica trovare un equilibrio tra il progresso tecnologico e i bisogni delle persone attraverso gli strumenti del Diritto, quello con la D maiuscola. Un diritto che non considerava scolpito nella pietra ma oggetto di continua ridefinizione da parte dei soggetti sociali che lo vivono e lo incarnano.
Stefano Rodotà ci ha lasciati un anno fa, ma il suo insegnamento, che ha fecondato intere generazioni di giuristi, accademici, intellettuali e attivisti non si è perso con lui. Ineguagliato difensore dei diritti della persona, vicino da sempre ai movimenti sociali, ambientalisti e femministi, alle battaglie per l’acqua, i beni comuni, la libertà d’informazione e la tutela della Costituzione, oggi il suo pensiero è vivo più che mai nel dibattito pubblico, nelle pubblicazioni e nell’affetto di quelli che non lo dimenticano.
Giurista, professore universitario, parlamentare della sinistra indipendente, presidente del Partito Democratico della Sinistra, Garante Privacy per due mandati, quasi presidente della Repubblica – candidato dai Cinquestelle e rifiutato dal Partito Democratico -, Stefano Rodotà è proprio una delle figure di cui sentiamo la mancanza nel deserto intellettuale lasciato dalla frammentazione della sinistra e dall’emergere di partiti xenofobi e criptofascisti che ammorbano tutta l’Europa. Quell’Europa di cui lui contribuì a scrivere la Carta dei diritti fondamentali, per cui svolse il compito di Garante europeo per la Privacy e membro della Commissione per i diritti umani.
Un’Europa che oggi non riconoscerebbe, al pari del suo Paese, quell’Italia di cui ha sempre rappresentato la bandiera migliore interpretando le trasformazioni di un mondo digitale e iperconnesso e indagandole alla luce della bio-politica: l’autogoverno della propria vita. Un autogoverno da contrapporre al bio-potere esercitato sugli individui attraverso il dominio di una tecnica senza limiti e senza controllo.
Note le sue battaglie contro la videosorveglianza, i database genetici e per la protezione dei dati personali. Per Rodotà la privacy era sempre da intendersi come “risultato di una relazione sociale”, una negoziazione, e mai come rivendicazione di interessi di parte o come governo delle scelte dei più forti sui più deboli. E mentre criticava il capitalismo delle piattaforme teorizzava il diritto all’autodeterminazione informativa: il diritto di decidere sulla dimensione pubblica e privata delle nostre vite senza ricatti e interferenze indebite.
Già nel 1973 in un libro profetico, Elaboratori Elettronici e controllo sociale edito dal Mulino Rodotà si interrogava sullo strapotere dei padroni dei database in cui sono raccolte le informazioni più private sulle persone, informazioni capaci di orientare il comportamento degli individui sotto osservazione la cui unica diga era costituita, prima della legge europea sulla privacy, dallo Statuto dei lavoratori, quella legge 300 del 1970 che impediva il controllo a distanza sui lavoratori. L’embrione della privacy odierna distrutta dal Jobs Act.
Ma il suo discorso sui diritti non si limitava alla privacy che pure riconosceva come “precondizione” per esercitare altri diritti: di associazione, di movimento, alla libera manifestazione del pensiero. Nel libro Il Diritto di avere diritti, per i tipi di Laterza nel 2012, affrontava di petto i temi della sessualità e del fine vita, ragionando sul dolore, sulla vita e sulla morte, sul diritto all’autodeterminazione e del riconoscimento dell’identità transgender per mettere al centro la dignità delle persone e il loro diritto alla libertà di scelta. Diritti anch’essi fondati sull’accesso all’informazione e alla conoscenza soprattutto per i decisori pubblici a cui amava ricordare che “è necessario conoscere per deliberare.”
Teorico della difesa del corpo elettronico, il sé digitale, quell’insieme di dati che rappresentano la nostra data-immagine e che ci precedono e annunciano di fronte al datore di lavoro, all’impiegato di banca, all’assicuratore o al gate dell’aeroporto, illuminanti sono state le sue riflessioni sul post-umano. Della tecnoscienza che governa il potenziamento del corpo umano attraverso impianti robotici e manipolazione genetica, criticava il turbo-ottimismo slegato dalle regole che vietano la clonazione riproduttiva e l’eugenetica di massa. Di fronte al corpo che diventa oggetto di profitto, riserva di organi per i powerful rich, Rodotà affermava invece “il diritto di governare liberamente il proprio corpo” ma in una condizione di sicurezza e di eguaglianza nell’accesso alle cure e alle opportunità della tecnica e “il diritto al consenso informato” per esercitarlo.
Sopra tutti un “diritto ad appartenere all’umanità”, che, citando Anna Harendt, oggi userebbe per denunciare la strage di migranti compiuta dai governi per mezzo di scafisti senza scrupoli. Di certo si sarebbe indignato verso quelli che parlano a vanvera dei taxi del mare invocando quello che chiamava il diritto alla verità, un diritto da esercitare costantemente contro le menzogne di chi ci governa.